Sabrina Carpenter – Man’s Best Friend: Ironia rigata di lacrime :: Le Recensioni di OndaRock
Aveva già avvisato in partenza, Sabrina Carpenter, che il seguito del fortunatissimo “Short n’ Sweet” non sarebbe in alcun modo stato un disco da educande. Non che l’album dello scorso anno fosse stato un progetto pudico, zeppo com’era di doppi sensi e versi dal marcato carattere sensuale, ma con “Man’s Best Friend”, contrassegnato da una copertina che non ha mancato di suscitare polemiche, l’ex-stella Disney prova ad alzare il tiro in fatto di battute, sfoghi di carattere sessuale e frasi da quotare in giro per la Rete. Prova, poiché il disco, al netto delle controversie di circostanza (affrontate senza battere ciglio, con tanto di un nutrito bouquet di copertine alternative) e dell’allure pruriginosa è in realtà un affare ben più malinconico, pieno di relazioni complicate, incontri insoddisfacenti e uomini da allontanare il prima possibile. Con un’estetica che depenna ogni traccia di contemporaneità a favore di un pop vintagista fino al midollo, Carpenter offre risate che sanno più di auto-esorcismo, di disperato tentativo di controllo, per non finire come un cane, come il titolo che rappresenta l’album.
Nessuna menzione all’ex Barry Keoghan, nessuna frecciatina a una storia chiusasi male; gli uomini immortalati nelle canzoni del disco sono amorfi sconosciuti su cui proiettare le proprie angosce, le insicurezze, finanche un ritrovato senso di libertà. Il più classico gioco delle parti, insomma, da una prospettiva fieramente girl-power, che si ricollega alla lunga storia del canzoniere americano. Assieme al fido Jack Antonoff e a tutti i suoi Bleachers, Carpenter realizza un disco che vuole cimentarsi da pari con questo stesso canzoniere, inserirsi nella tradizione con un sound finemente analogico, decisamente parco negli elementi sintetici, ben più attento alla resa live del suono. Un elemento di diversificazione, in un panorama pop ancora perlopiù affetto dalla brat-wave, che però mostra anche gli evidenti limiti di una scrittura più attenta alla catchphrase che alla sostanza.
Già “Manchild”, il pur propizio singolo di lancio, al netto della divertente composizione testuale fa poco per sfuggire a un risaputo motivetto country-pop che nemmeno i tratteggi sintetici riescono a personalizzare. Non che quando si decide di percorrere strade dance il risultato cambi molto: “Tears” non si spinge oltre una disco convenzionale, sempre salace ma in fondo indistinguibile da un qualsiasi momento dell’ultima Lizzo, ma è con “House Pop” che si tocca la più assoluta calligrafia, in un brano che per struttura, taglio e dinamica sembra preso di peso dalla migliore Carly Rae Jepsen.
Dov’è che insomma brilla davvero la scintilla di Carpenter, dove le maschere fanno intravedere qualcosa oltre al personaggio? In alcuni dei midtempo e delle ballate che tappezzano il disco, in cui traspare al meglio la vocalità efficace e intensa della cantante. Là dove malinconia e tristezza scalfiscono la facciata di finta imperturbabilità, dove le recriminazioni e le accuse rendono più partecipe il canto, è lì che la questione si fa convincente, che l’emozione prende il sopravvento.
Lungi da noi voler trasformare Carpenter nell’ennesima sad girl anodina, ma è in un reggae-pop mutante quale “Nobody’s Son” o nelle forme euro di “My Man On Willpower” che la scrittura lascia emergere quel filo di carattere in più necessario a sostenere il carattere di testo e interpretazione. Perché in fondo il segreto sta tutto qui: che si voglia essere ironici o malmostosi, dotarsi della struttura adeguata è fondamentale. Ben più del suo predecessore, “Man’s Best Friend” fa fatica a intuirlo.
01/09/2025