la boxe secondo Lenny Bottai
Nella sua Livorno l’ex pugile Lenny Bottai, classe 1977, gestisce da tempo una palestra popolare, la Spes Fortitude, dove accoglie ragazzi di talento come il tunisino Ghaith Weslati, professionista che a breve farà il titolo italiano, ma anche giovani che hanno semplicemente voglia di fare sport.
Bottai, ormai sono parecchi anni che è un maestro, è riuscito definitivamente a fare lo switch da pugile ad allenatore?
Sì, anche se smettere è stata una decisione sofferta, nel 2018 dopo la fregatura subita in Francia per l’Europeo. Decisi che doveva pur arrivare la fine, e così fu. Con grande sofferenza. Ma come disse il mio caro amico matchmaker Ferrarini, ad un certo punto si rischia di diventare patetici. Mi sono dedicato agli altri, rimanendo sul ring, ma da tecnico.
Il suo pugile di maggior talento è più forte di Lei?
Ghaith Weslati è indubbiamente il più promettente che ho. Ha grandissime doti, poi la differenza la fa spesso costanza e testa. Sì, ha sicuramente più talento di me, come talento, anche se è pur vero che io ho fatto anche di più di chi aveva più possibilità di me. Ad ogni modo per me è un piacere gestire gente che può far meglio di quanto fatto da me. Una sindrome ricorrente dei maestri è quella di voler essere sempre superiori a tutti quelli che li circondano, io invece non ne soffro. Ghaith arrivò in palestra senza documenti, scappato dal ritiro con la Tunisia ad Assisi. Lo abbiamo accolto in palestra, gli abbiamo creato una stanza qui per dormire. Ora ha la residenza, un lavoro e il sogno del pugilato, un professionista con i fiocchi. Un grande esempio.
Livorno è città di basket e anche di calcio. Ma la boxe?
Livorno è la città del pugilato. Pensa che nel ’56, quando il mio maestro Franco Nenci andò alle Olimpiadi, c’era con lui Mario Sitri, altro livornese, e per poco non ci andava anche D’Orto, altro concittadino. Golfarini è stato campione italiano contemporaneamente in due categorie e campione d’Europa, Brondi anche, Fanali due volte sfidante europeo, insomma, la lista sarebbe lunga. Noi abbiamo riavviato questa tradizione che era nel sangue della città.
Oltre alla palestra ha un altro lavoro?
No, in realtà io dal primo titolo ho fatto una scelta avventuriera, possiamo dire una sfida. Ho aperto una palestra popolare e vivo di questo, destro e sinistro dalla mattina alla sera, per chi combatte, per chi si diverte e per tanti bimbi. La nostra è ovviamente una formula che tende ad abbattere ogni barriera, che sia sociale, razziale ed economica. Abbiamo allenato dei ragazzi che sono stati campioni italiani, altri internazionali, e poi, nel frattempo, lavoriamo per l’accessibilità allo sport con categorie svantaggiate, anche progetti con la salute mentale. Avessimo una struttura più idonea, potremmo anche potenziare quanto fatto fino ad oggi. Quando ho fatto questa scelta ero arrivato al primo titolo in carriera e fino a quel momento facevo l’operaio; la paura di passare da 6 a 12 riprese, il lavoro precario, mi spinsero a provarci. Ero cartongessista e da poco avevo smesso di fare il facchino portuale. Sempre con contratti ballerini, però. Così decisi di provarci.
Ha ancora la falce e martello tatuata?
Perché dovrei averla cancellata? In realtà sul petto ho un martello e un calibro incrociati, che sono simboli del lavoro e che significano una precisa idea nella simbologia sovietica, ovvero che forza e precisione, tecnica, debbono essere strettamente legati. Poi a dire il vero ho anche delle scene che riguardano la battaglia di Stalingrado, diciamo che c’è stato un momento della mia vita dove questa cosa avevo bisogno di esternarla. Oggi forse, vista l’inflazione di tatuaggi, chissà se farei le stesse scelte (estetiche, le idee di fondo sono sempre quelle). Ad ogni modo ho anche la storia della mia città addosso, ma non fa lo stesso scalpore. Beh sì, diciamo che quei simboli, in quel periodo poi, erano ingombranti quando i miei match venivano trasmessi in diretta su Italia 1, tv di Berlusconi.
Direbbe esattamente le stesse cose che ha detto una quindicina di anni fa in diretta Rai in un video oggi diventato virale?
Il paradosso è che finii sotto inchiesta disciplinare per quell’intervista, come del resto mi è successo altre tre volte, anche per cosa scrivevo su Facebook. La boxe in parte ha sempre gli stessi problemi di allora, ma al tempo la questione erano le World Series e i cambiamenti della defunta AIBA per fare la lotta al professionismo. La mia analisi sarebbe molto più complessa ed allora era sembrata un’arringa contro i corpi sportivi, ma mica per la divisa, la mia era un’analisi sulla disparità che crea quella gestione. Una volta ho dovuto rispondere con un lungo post nel quale spiegavo come è nata quell’idea e come nell’Unione Sovietica ogni ministero aveva i suoi atleti. Quindi la possibilità era per tutti, operai, ferrovieri e militari. Il problema è che non siamo educati alla complessità e tutto si riduce a slogan e spot.
Combattere a Las Vegas con un fuoriclasse come Jermall Charlo che esperienza è stata?
È stato come entrare in un videogame. Un po’ come quando da ragazzo giochi a FIFA e all’improvviso ti ritrovi in mezzo al campo a fare la finale di Champions League. Però per me è stata anche una conferma di alcune cose, in primis che ero me stesso dal ring dei Bagni Lido, dove ho combattuto molte volte, o al Palamacchia, come sul ring più importante del mondo. Qui ho coniato un concetto, un motto, che ho mutuato da Cartesio, ovvero ‘Pugno ergo sum’, ovvero combatto quindi sono. Nessuna remora se sono qui. Poi un’altra conferma è stata che quel Paese, in particolare quello stato e quella città, sono il degrado umano, lo spreco e l’apparenza. Erano tutti attratti da quelle luci e da quelle situazioni, io le schifavo. Mi chiesero cosa provassi, venendo da una città così piccola, a vedere Las Vegas, risposi che meglio di Livorno al mondo non c’era nulla. Charlo era un fuoriclasse, si è rovinato ed è uscito di carcere adesso, però aveva tutto il vantaggio del peso, nella boxe non si era mai visto, la sera del match era 80 kg. Io 73…
Taglio del peso già allora? Che ne pensa di questa pratica?
Penso che la questione valga di essere trattata seriamente. Fino a un certo punto, ovvero solamente con la modulazione degli alimenti, si può arrivare tranquillamente in maniera naturale ad un gioco del peso, ma non oltre il 5/7% massimo. Sopra possono esserci dei rischi, oppure l’ombra dell’utilizzo di alcune metodologie vietate ad oggi non rilevabili facilmente. Questa pratica finirà solamente quando, o qualcuno si farà veramente male, o tutti la sapranno maneggiare, e a quel punto sarà vero l’adagio del Manzoni che diceva che se ad uno spettacolo chi è più basso impara ad alzarsi sulle punte dei piedi, se poi lo imparano tutti, si torna alla condizione di partenza. Charlo era bravo, ma in un paio di occasioni mi ha spinto via con una sola mano come fossi un bambino di 5 anni, ed i suoi colpi, anche bloccati non erano come quelli di un superwelter.
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