Politica

perché il calcio non decide come con la Russia

Interferenze governative, guerre di aggressione, discriminazioni razziali, frodi anagrafiche e abbandoni non giustificati. Nel corso della sua storia, la Fifa ha sospeso o escluso federazioni calcistiche per i motivi più disparati, spesso molto gravi. Oggi, al centro del dibattito, c’è la richiesta della Federcalcio palestinese di sospendere Israele dalle competizioni internazionali. Una questione che sta sollevando interrogativi non solo sportivi, ma anche e soprattutto profondamente politici. Undici anni dopo la prima azione in questa direzione, infatti, nel maggio di un anno fa la Federazione calcistica palestinese (PFA) ha presentato una richiesta formale alla Fifa per chiedere di sospendere immediatamente la Federazione calcistica israeliana (IFA) da ogni competizione internazionale, denunciando violazioni del diritto internazionale, discriminazioni nei confronti dei calciatori arabi, restrizioni sui permessi d’ingresso in Cisgiordania e l’inclusione nel suo campionato di club con sede all’interno di insediamenti illegali.

La risposta del massimo organismo, però, non è ancora arrivata. La Fifa ha di fatto scelto di non scegliere, rimandando più volte la decisione e trincerandosi dietro le parole di circostanza del suo presidente, Gianni Infantino: “Analizzeremo e valuteremo attentamente le richieste per garantire che gli statuti e i regolamenti della Fifa siano applicati nel modo corretto“. Ad oggi, però, una decisione finale ancora non è arrivata, né si intravede all’orizzonte. “Il Comitato per la Governance, l’Audit e la Conformità e il Comitato Disciplinare – le due commissioni della Fifa che stanno indagando sulla questione (ndr) – sono ancora in corso per concludere una vicenda molto complessa“, ha dichiarato Mattias Grafström, il Segretario Generale della Fifa, a margine del Congresso Annuale tenutosi lo scorso maggio in Paraguay.

Un immobilismo istituzionale, logorante e dal sapore pilatesco, che ha spazientito i palestinesi, scatenando le ire del numero uno della PFA: “La Fifa considera alcune guerre più importanti di altre?”, si è chiesto in maniera polemica Jibril Rajoub. Ad infastidire, soprattutto, è il doppiopesismo maneggiato in questi anni dalla federazione internazionale. Il caso spesso citato per suffragare questa tesi è naturalmente quello della Russia. Nel 2022, pochi giorni dopo l’invasione dell’Ucraina, infatti, la federazione internazionale ha sospeso la Russia da tutte le competizioni calcistiche, agendo con fermezza e rapidità, vietandone la partecipazione al Mondiale qatariota. Una scelta politica, travestita da tutela sportiva, dettata dalla crescente pressione internazionale e arrivata senza neanche un sostegno diretto delle Nazioni Unite.

Quello della Russia, però, non è il primo ban elargito dalla Fifa. Nella storia ultracentenaria del massimo organismo calcistico mondiale, diverse federazioni sono state sospese o escluse per motivi che spaziano dalle interferenze politiche alle guerre di aggressione, passando per scandali interni e gravi violazioni dei diritti umani. La storia, in questo senso, offre anche esempi emblematici. Il Sudafrica, ad esempio, è stato sospeso nel 1961 a causa del regime di apartheid che impediva la formazione di squadre miste, imponendo una certo grado di segregazione anche nelle competizioni internazionali. Il paese è stato riammesso solo con la fine dell’apartheid negli anni ’90. La Jugoslavia, invece, è stata esclusa nel 1992 in seguito alle sanzioni Onu relative alle guerre nei Balcani. Interferenze governative negli affari federali e accuse di frodi di vario genere, invece, sono state la causa dell’embargo calcistico al quale sono sono state condannate per diversi anni Kenya, Zimbabwe, Kuwait, Indonesia e Pakistan.

La condotta violenta dei propri tifosi, che in una partita di qualificazione ai Mondiali con l’Oman hanno lanciato bottiglie di vetro all’indirizzo di arbitro e avversari, è stata invece la motivazione alla base della squalifica comminata nel 2011 al Myanmar. Inizialmente al Chinthe, com’è conosciuta popolarmente la nazionale locale, era stato proibito di partecipare anche al percorso verso Russia 2018, ma poi la sanzione è stata revocata prima dell’inizio del torneo. Casi decisamente più singolari, infine, sono quelli di Messico e Cile, entrambe bannate agli albori degli anni ’90. Il Tricolor messicano è stato punito in seguito al cosiddetto scandalo anagrafico dei Cachirules, ovvero per aver barato sull’età di alcuni giocatori in un torneo giovanile. Ancora più grottesco il caso della Roja, esclusa dal percorso verso USA ’94 a causa della maldestra messinscena del portiere Roberto Rojas, soprannominato il Condor, che durante una sfida con il Brasile, decisiva per la qualificazione ad Italia ’90, con la Seleção in vantaggio per 1-0 grazie ad un gol di Careca, si è accasciato a terra fingendo di essere stato colpito da un razzo piovuto dagli spalti. In realtà, come rivelarono le immagini e le indagini successive, Rojas si era autolesionato con una lametta nascosta nei guanti, nel disperato tentativo di ottenere la vittoria a tavolino. La farsa è stata smascherata e la FIFA ha punito il Cile con l’esclusione dai Mondiali del 1994, mentre Rojas è stato radiato a vita dal calcio professionistico (pena poi commutata molti anni dopo).

Eppure, però, spesso la Fifa ha chiuso un occhio in situazioni ben più gravi. La Germania nazista, per dire, ha partecipato serenamente ai Mondiali del 1938 in Francia, mentre l’Argentina di Videla ha organizzato e vinto quelli del 1978, giocando la finale al Monumental di Buenos Aires, a pochi passi da un noto centro di detenzione degli oppositori politici. Adesso è il caso israeliano ad aver riacceso il dibattito sulle responsabilità etiche e politiche della Fifa, mettendo l’organizzazione davanti a un dilemma cruciale. Dopo anni di decisioni spesso frammentarie e contestate, questa situazione rischia di trasformarsi in un vero e proprio banco di prova per il massimo organismo del calcio mondiale, chiamato a dimostrare coerenza e imparzialità nell’applicazione delle regole e nel rispetto dei principi fondamentali dello sport. Con così tante nazioni coinvolte in pratiche controverse, dalla discriminazione religiosa all’oppressione politica, il rischio è che la Fifa scelga dove intervenire non in base ai principi, ma alla convenienza, facendone una questione di realpolitik. Il caso della Russia rappresenta l’eccezione più recente e visibile al principio di neutralità politica del calcio, più volte sbandierato dal massimo organismo mondiale. La Fifa ha dimostrato di poter agire, quando la pressione geopolitica lo richiede, anche senza l’appoggio delle Nazioni Unite. Oggi, invece, davanti alla richiesta della Palestina di sospendere Israele per violazioni del diritto internazionale, appare piuttosto titubante. Ci si chiede, quindi, dove tracciare una linea tra sport e politica. Come se fosse possibile farlo. La Fifa, nel suo Statuto, afferma di credere nei valori dello sport come strumento di giustizia e inclusione e vieta espressamente qualsiasi forma di discriminazione, politica o razziale, impegnandosi a sostenere i diritti fondamentali. Ma se questi principi valgono nei regolamenti, devono valere anche nella prassi. Solo una posizione coerente e trasparente su tutte le controversie potrà preservare la legittimità del calcio internazionale.


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