i due operai morti asfissiati nella fossa biologica di una villa
La tragedia di Santa Maria di Sala ha visto la morte dei due giovani egiziani per asfissia per i gas o per annegamento.
È una tragedia che scuote profondamente la comunità veneziana e pone ancora una volta sotto i riflettori le condizioni di lavoro, spesso precarie e opache, in cui operano molti migranti in Italia. Due giovani operai egiziani, Sayed Abdelwahab Hamad Mahmoud, 39 anni, e Saad Abdou Mustafa Ziad, 21 anni, hanno perso la vita lunedì mattina in una drammatica sequenza di eventi avvenuta a Veternigo, frazione del comune di Santa Maria di Sala (Venezia).
I due uomini, regolarmente presenti in Italia da pochi mesi, erano impegnati in alcuni lavori presso una villa privata in via Desman 62, dove si stavano effettuando interventi di manutenzione e bonifica. Lì, all’interno di una vasca di raccolta di acque nere – una fossa biologica – hanno trovato la morte, sopraffatti da esalazioni tossiche.
Il dramma: un gesto di solidarietà, un epilogo fatale
Secondo una prima ricostruzione dei fatti, Sayed Abdelwahab è stato il primo a scendere all’interno della fossa. Dopo pochi secondi, avrebbe manifestato di non voler risalire, forse per un malore, probabilmente a causa dell’esposizione ai gas tossici – tra cui, secondo i primi rilievi, l’idrogeno solforato, noto per la sua estrema pericolosità anche a basse concentrazioni.
Il collega e connazionale Saad Abdou Mustafa Ziad lo avrebbe visto cadere e intuendo che aveva perso i sensi si è lanciato a sua volta nella vasca per tentare di salvarlo. Un gesto istintivo, disperato, profondamente umano. Ma anch’egli è rimasto vittima della stessa trappola mortale. Nessuno dei due è più riuscito a risalire. I loro corpi sono stati recuperati successivamente dai vigili del fuoco, intervenuti con unità specializzate NBCR (Nucleare Biologico Chimico Radiologico).
Sul posto, allertato da un terzo operaio – anche lui egiziano, scampato alla tragedia solo perché rimasto all’esterno – sono intervenuti i carabinieri della compagnia di Mirano, diverse squadre dei vigili del fuoco, e personale sanitario. Ma ogni tentativo di rianimazione si è rivelato vano: i due operai erano già deceduti al momento dell’arrivo dei soccorsi.
Le vittime: volti, nomi e vite spezzate
Sayed Abdelwahab Hamad Mahmoud aveva 39 anni, un’età in cui si dovrebbe già costruire un futuro stabile. Saad Abdou Mustafa Ziad, invece, aveva solo 21 anni: giovanissimo, con davanti a sé una vita intera da immaginare e realizzare. Entrambi erano arrivati in Veneto da pochi mesi e avevano trovato ospitalità presso il centro di accoglienza “Un mondo di gioia” di Mirano, gestito da una cooperativa sociale.
Proprio da quel mondo che avrebbe dovuto offrirgli una possibilità di riscatto e integrazione, è iniziato un percorso che si è interrotto in modo tragico. A colpire è anche la dinamica dell’incidente: il tentativo di salvare un compagno in difficoltà, pur in condizioni estremamente rischiose, racconta una fratellanza che va oltre la paura e che merita rispetto.
I dubbi: chi doveva vigilare?
Le indagini, coordinate dalla Procura di Venezia, stanno cercando di fare luce su numerosi punti oscuri. A partire dalla regolarità della presenza dei due uomini sul luogo di lavoro. Le prime verifiche devono appurare se fossero titolari di un regolare contratto di lavoro e se la loro presenza in quel cantiere – se così si può definire – fosse formalizzata in qualche documento.
Con loro c’era un terzo operaio, illeso, accompagnato da una ditta nota di Traslochi e Trasporti di Rivale di Pianiga. Secondo alcune testimonianze, i tre si trovavano nella villa per ispezionare la fossa biologica, già oggetto di interventi nei giorni precedenti. Pare che una precedente pulizia non fosse risultata soddisfacente per la nuova proprietaria, una 42enne di origini moldave residente a Campalto (Venezia), che ha acquistato l’immobile lo scorso aprile rilevandola da un centro di accoglienza per migranti, la cooperativa CSSA di Spinea.
Sicurezza sul lavoro: l’ennesima tragedia evitabile?
Secondo gli esperti intervenuti sul posto, all’interno della fossa erano presenti gas altamente tossici, in particolare idrogeno solforato. Una sostanza che, in concentrazioni anche minime, può causare la perdita dei sensi e la morte per asfissia in pochi minuti. È prassi consolidata, e norma di legge, che interventi in ambienti confinati e potenzialmente contaminati vengano svolti solo da personale specializzato, dotato di maschere filtranti e dispositivi di protezione adeguati. Nessuna di queste misure, secondo quanto emerso finora, sarebbe stata rispettata.
I due operai non indossavano maschere. Non avevano tute protettive. Non avevano strumenti per il rilevamento della qualità dell’aria. E, forse, non avevano neanche consapevolezza del rischio a cui stavano andando incontro.
Il sospetto, ora al vaglio degli inquirenti, è che fossero stati incaricati informalmente di svolgere un lavoro pericoloso senza alcuna formazione e senza dispositivi di sicurezza. Se così fosse, saremmo di fronte non solo a un incidente tragico, ma a una gravissima violazione delle norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.
La magistratura ha già aperto un fascicolo per chiarire eventuali responsabilità penali. Saranno attentamente studiati i ruoli della ditta che ha accompagnato i tre operai sul posto, della proprietaria dell’immobile, del sistema di accoglienza e di inserimento lavorativo dei migranti.
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