modifiche al nome di un Comune, forse un sogno irrealizzabile?
La denominazione di un Comune non è una mera etichetta descrittiva o un attributo onorifico conferibile a discrezione dell’ente locale. Essa costituisce, al contrario, un elemento essenziale e costitutivo dell’identità giuridica di diritto pubblico dell’ente stesso. Similmente a quanto avviene per una persona fisica che possiede un “diritto al nome” riconosciuto e tutelato, il Comune, in quanto persona giuridica pubblica, è titolare di una propria denominazione ufficiale che lo identifica univocamente nell’ordinamento giuridico e in tutti i rapporti pubblici, amministrativi e legali.
Il Comune di Barletta ha espresso nel suo Documento Unico di Programmazione (DUP) l’intenzione di includere nello Statuto Comunale la dicitura “Barletta la città della Disfida e di […]”. Tuttavia, l’analisi giuridica rivela che una tale modifica, se intesa come parte della denominazione ufficiale del comune, non può essere realizzata tramite una semplice revisione dello Statuto.
Il quadro normativo italiano, in particolare l’Articolo 133, comma 2, della Costituzione e l’Articolo 15 del Testo Unico degli Enti Locali (TUEL), attribuisce la competenza a modificare la denominazione di un Comune esclusivamente alla Regione, che deve agire tramite una propria legge.
Un elemento cruciale di questa procedura è il requisito costituzionale di “sentire le popolazioni interessate”. La giurisprudenza della Corte Costituzionale, in particolare la Sentenza n. 123/2019, ha chiarito in modo inequivocabile che questo “sentire le popolazioni” si traduce nella necessità di un referendum consultivo obbligatorio. La Corte ha ribadito che anche aggiunte “minimali” al nome di un comune richiedono tale consultazione, respingendo tentativi di semplificazione che non garantiscano un coinvolgimento esplicito, preventivo e segreto dell’intera popolazione comunale.
La denominazione di un Comune è un elemento di diritto pubblico, analogo al nome di una persona fisica, che identifica l’ente in tutti i contesti ufficiali. Pertanto, l’aggiunta proposta da qualcuno, trascende la mera autonomia statutaria, che riguarda l’organizzazione interna dell’ente, e incide sulla sua identità legale formale. Una modifica statutaria, che richiede una maggioranza qualificata del consiglio comunale ma non un referendum, sarebbe insufficiente per alterare il nome ufficiale.
Il nome di Pietro Mennea, pur avendo un inestimabile valore simbolico e continuando a generare un impatto culturale ed economico per molti, talvolta può attrarre l’attenzione di individui o iniziative che, pur con intenti apparentemente lodevoli, propongono obiettivi di riconoscimento formale che si rivelano poi irrealizzabili a causa della complessità delle normative vigenti. Le promesse politiche non possono concretizzarsi senza affrontare i rigorosi vincoli legali.
In sintesi, il percorso legale, in questo caso per Barletta, per integrare la dicitura nel suo nome ufficiale richiederebbe: una proposta formale del Consiglio Comunale alla Regione; l’emanazione di una legge regionale specifica; e un referendum popolare obbligatorio tra i cittadini di Barletta o di altre città se coinvolte in procedure simili. Questa procedura complessa, che implica notevoli sforzi amministrativi, risorse finanziarie e un forte consenso politico, spiega le difficoltà e i ritardi nell’attuazione di tali obiettivi.
Il nome di un Comune è il suo segno distintivo primario. Esso compare in ogni atto ufficiale, in ogni documento pubblico, nelle comunicazioni istituzionali e in tutti i registri. La sua funzione non è solo di identificazione, ma anche di garanzia della certezza del diritto e della trasparenza amministrativa. La stabilità della denominazione comunale è quindi un principio fondamentale per la corretta gestione e riconoscibilità degli enti locali all’interno del sistema statale.
Il fondamento della rigidità nel processo di modifica della denominazione comunale risiede direttamente nell’Articolo 133, comma 2, della Costituzione. Questa norma non è una semplice disposizione procedurale, ma eleva la modifica della denominazione a materia di riserva di legge regionale, subordinata al principio inderogabile della “consultazione delle popolazioni interessate”. Questo significa che la denominazione di un Comune non è materia di autonomia regolamentare o statutaria dell’ente locale, ma è una questione di ordine pubblico e interesse generale che trascende la singola comunità locale e coinvolge la sovranità legislativa regionale e il principio di autodeterminazione popolare garantito a livello costituzionale.
La Sentenza della Corte Costituzionale n. 123/2019: La “Denominazione” è Intoccabile senza Referendum.
La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha costantemente rafforzato questa impostazione. La Sentenza n. 123/2019 rappresenta un pilastro in questa materia, poiché ha sferzato duramente un tentativo di una legge regionale di semplificare la procedura per l’aggiunta di una qualificazione alla denominazione comunale. La Corte ha ribadito che qualsiasi modifica, integrazione, qualificazione o “arricchimento” del nome ufficiale del Comune costituisce una “modifica della denominazione” ai sensi dell’Art. 133 Cost. e dell’Art. 15 TUEL.
Non vi è spazio per interpretazioni meno restrittive o per distinguere tra modifiche “sostanziali” e “minimali” o “descrittive”. Anche l’aggiunta di un semplice aggettivo o di una frase qualificativa, se intesa come parte integrante del nome ufficiale, è considerata una alterazione del dato anagrafico dell’ente pubblico e, in quanto tale, richiede l’intera e complessa procedura.
La Corte ha inequivocabilmente sancito che la locuzione “sentite le popolazioni interessate” impone un referendum consultivo obbligatorio, non surrogabile da petizioni, silenzi assenso o altre forme di “consultazione tacita”. La decisione è fondata sulla necessità di garantire un “coinvolgimento obbligatorio, preventivo e segreto dell’intera popolazione comunale”, condizione che solo il voto referendario a scrutinio segreto può assicurare, esprimendo una volontà genuina, informata e libera della comunità. Questo eleva il referendum da mero adempimento procedurale a garanzia costituzionale sostanziale dell’autodeterminazione locale sull’elemento identitario più visibile e significativo.
Alla luce di quanto esposto, la previsione, come talvolta si riscontra in alcuni DUP, di “riconoscimento nello Statuto Comunale della dicitura” come mezzo per modificare la denominazione ufficiale è giuridicamente errata e priva di efficacia. Lo Statuto Comunale, seppur massima espressione dell’autonomia normativa locale, ha la funzione di disciplinare l’organizzazione interna dell’ente, il funzionamento dei suoi organi e l’esercizio delle competenze. Non ha il potere di alterare elementi costitutivi della persona giuridica che trovano fondamento e disciplina in norme di rango superiore (Costituzione e legge regionale). Qualsiasi disposizione statutaria volta a modificare la denominazione ufficiale senza il rispetto del procedimento costituzionalmente garantito sarebbe considerata tamquam non esset (come se non esistesse) per quanto attiene all’identità legale del Comune. Il nome ufficiale rimarrebbe invariato, e la dicitura statutaria avrebbe un mero valore interno o simbolico, senza alcun riconoscimento giuridico esterno per l’identificazione dell’ente.
La denominazione di un Comune è un atto di volontà collettiva fondamentale, che non può essere modificato con leggerezza o per via amministrativa, o perché a qualcuno fa comodo per un suo tornaconto personale. La sua alterazione è un evento di rilievo costituzionale che richiede la mobilitazione di risorse legislative regionali e l’espressione diretta della sovranità popolare locale attraverso il referendum. Questa rigidità non è un ostacolo burocratico arbitrario, ma una garanzia dell’identità e della stabilità degli enti territoriali, elementi cardine della struttura dello Stato.
Salvis iuribus.
Avv. Vincenzo Mennea
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