Società

Oliver Stone, tra cinema e politica: «I film italiani mi hanno segnato, La Dolce Vita il primo in sala con mia mamma. Gli Stati Uniti? Sulle guerre non imparano dalla storia»

Prima ci è andato da insegnante, in una scuola cattolica, subito dopo aver ottenuto il diploma. Poi ci è tornato da soldato semplice, 21enne, arruolatosi volontario nell’esercito per servire il proprio paese. Oliver Stone conosce bene il Vietnam, conosce bene la guerra. Ha vissuto tutto sulla propria pelle, per 14 mesi, rimanendo ferito due volte in combattimento. È rientrato negli Stati Uniti nel 1968, con medaglie al valore e decorazioni varie. Ma soprattutto con la voglia di raccontare ciò che aveva visto. «Durante gli anni alla New York University Film School avevo Martin Scorsese tra gli insegnanti, per me un mentore», rivela il regista tre volte premio Oscar durante una Masterclass al Marateale, il festival internazionale di cinema che si svolge annualmente a Maratea. «Mi consigliò di fare il primo film più personale possibile, di parlare solo di quello che conoscevo e lasciare stare il resto. Ne uscì un cortometraggio, Last Year in Viet Nam. Lui lo guardò e disse che era nato un regista».

Oliver Stone ritira il premio al Marateale

Oliver Stone ritira il premio al Marateale

Gianfranco Bernardo

Non sbagliava. Perché al di là delle statuette dell’Academy e della valanga di riconoscimenti ricevuti, Stone ha fatto scuola in quanto a sensibilità politica e sociale. Captare, poi mettere in scena, con onestà: la trilogia del Vietnam (Platoon, Nato il quattro luglio e Tra cielo e terra) ne è una vivida testimonianza. «A dir la verità, dopo quella frase di Scorsese, mi montai la testa e volevo fare film in bianco e nero, alla Jean Luc Godard. D’altronde era il periodo della Nouvelle Vague», se la ride prima di ritirare il Premio Internazionale Basilicata. «Misi in fila una serie di fallimenti: non avevo più soldi per i cortometraggi, scrivevo sceneggiature per altri e non riuscivo a fare il mio primo film. Credo però si impari più dai fallimenti che dai successi, quindi sono grato a quel periodo. Certo, era frustrante, inizi a pensare di doverti cercare un altro mestiere», ha proseguito. «Ma ho capito che il lavoro del regista è anche questo, saper stare a contatto con la frustrazione».

Anche i primi due horror – La regina del male e La mano – non vanno bene, poi nel 1983 la sceneggiatura di Scarface gli cambia la vita. Anzi, a detta dello stesso Stone, la vera svolta arrivò grazie ad un trattamento sul rapimento dell’ereditiera Patricia Hearst: «Non diventò un film ma il taglio di questa storia mi ha aperto ad uno stile investigativo. Scegliere tra informazione e intrattenimento? La ricerca della verità è di per sé intrattenimento e interessa al pubblico», sottolinea il regista classe ’46, che è stato segnato dalla separazione dei suoi genitori quando era giovanissimo. «Un evento che ha inciso sulle mie decisioni future, all’epoca era qualcosa di insolito». Insieme alla mamma conserva un dolce ricordo legato al cinema. «Vidi con lei il mio primo film in sala, La Dolce Vita. I registi italiani, con le loro opere, hanno avuto un grosso impatto su di me. Da Bertolucci ad Antonioni, da De Sica a Fellini, che andai a conoscere sul set ma scelsi il giorno sbagliato, non era di buon umore».

La masterclass al Marateale con il produttore Tarak Ben Ammar e Oliver Stone

La masterclass al Marateale con il produttore Tarak Ben Ammar e Oliver Stone

Gianfranco Bernardo


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