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una logica spregevole che non possiamo più accettare

Dopo Armani, Valentino e Dior, scoppia il caso Loro Piana: il Tribunale di Milano dispone l’amministrazione giudiziaria per un anno nei confronti della società, brand della moda di lusso. Il provvedimento dei giudici arriva alla fine di un’indagine, che ha accertato come Loro Piana abbia esternalizzato la produzione di capi di abbigliamento e la realizzazione di questi capi sia avvenuta in contesti lavorativi di “sfruttamento del lavoro”.

È emersa una catena di “subappalti non autorizzati” articolata su almeno 4 livelli. Ecco come è stata ricostruita: la produzione è esternalizzata a società “senza alcuna capacità produttiva”, che a loro volta appaltano le lavorazioni a opifici cinesi clandestini. Loro Piana a Evergreen, che ha 7 operaie e quasi nessun macchinario. Evergreen a Sor-Man, che per la produzione si serve delle cinesi Clover Moda srl e Day Meiying. Secondo il Tribunale di Milano, le condizioni in queste ditte si basano su evasione fiscale e contributiva, omissione di tutti i costi relativi alla sicurezza, situazioni abitative degradanti per la manodopera. Chiaramente manodopera irregolare e clandestina, impiegata per tutto il giorno, compresi sabati, domeniche e giorni festivi, con retribuzione sottosoglia rispetto ai minimi tabellari.

Risultato? Il “costo unitario” del capo prodotto si abbatte a circa un “centinaio di euro”. Poi viene rivenduto negli store del brand a prezzi tra i 1000 e i 3000 euro. Chi denuncia, come in tanti altri casi, viene picchiato e ferito. Questo sì, si chiama “caporalato”, ma il punto è che sono tutti affari nostri. Affari del Made in Italy. Affari di Loro Piana.

Perché Loro Piana – così dice il giudice – ha agevolato quel sistema di sfruttamento per ottenere l’abbattimento dei costi e la massimizzazione dei profitti. Un colosso il cui presidente è Antoine Arnault (che rappresenta la multinazionale francese LVMH), figlio di Bernard Arnault, l’uomo più ricco di Francia e fra i primi 10 al mondo per patrimonio.

Ma torniamo un momento alle vicende di qualche tempo fa.

A febbraio, è emersa la condizione di sfruttamento dei lavoratori della Z Production di Campi Bisenzio, azienda dell’hinterland fiorentino che produce borse per conto di Montblanc, posta sotto accusa per le condizioni lavorative dei dipendenti. Dal 2020 la Z Production era sottoposta a sequestro preventivo da parte del Tribunale di Firenze, a seguito di un’indagine della Guardia di Finanza per falsa fatturazione e irregolarità societarie, che ha fatto luce anche sulla continuità tra le varie ditte che negli anni, sotto diverso nome, nascondevano la stessa proprietà di fatto. Ditte il cui committente è sempre stato Richemont per i prodotti Montblanc.

Analogo il caso di Giorgio Armani Operations spa, società che si occupa di progettazione e produzione di abbigliamento e accessori del gruppo del colosso della moda made in Italy Armani: il Tribunale di Milano ha disposto l’amministrazione giudiziaria per l’azienda, negligente nel prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo nell’ambito del ciclo produttivo. Ciclo totalmente esternalizzato e con commesse affidate a opifici cinesi situati nelle province di Milano e Bergamo, che abbattevano i costi ricorrendo all’impiego di manodopera irregolare e clandestina in condizioni di sfruttamento. Il provvedimento è stato revocato nel 2024 dopo un percorso giudicato “virtuoso”.

Situazioni di sfruttamento legate al sistema delle esternalizzazioni si riscontrano diffusamente anche nel settore dell’arredamento: si pensi al caso della Vot International di Quarrata (provincia di Pistoia), azienda a conduzione cinese che produce materassi e divani per conto del grande marchio del Made in Italy Mondo Convenienza; o alla recentissima vicenda di Gruppo 8 e Sofalegname, che producono divani di lusso per la multinazionale HTL venduti a decine di migliaia di euro, ma negano mesi di stipendio e ammortizzatori sociali ai lavoratori.

Ma il tema è più ampio. Più delle vere e proprie sacche di illegalità, più delle inchieste per caporalato. Pensiamo alla di Gucci, riportata in questi giorni da un’inchiesta di Domani: il Gruppo Kering, proprietario di Gucci, affida tutta la produzione di piccola pelletteria a 15 fornitori diretti. Tra questi, ci sono tre sue controllate toscane. I fornitori, a loro volta, subappaltano a piccoli artigiani.

I lavoratori delle controllate lavorano due giorni a settimana, a stipendio pieno, mentre nei subappalti si lavora tutti i giorni, tutto il giorno, a velocità insostenibile. Se non si rientra nei tempi stabiliti dal fornitore, ogni minuto lavorato in più è gratis. I pezzi prodotti al costo di 14 euro l’uno sono venduti nelle boutique a centinaia, a volte migliaia di euro. Eppure, ciò che i fornitori corrispondo ai piccoli artigiani copre a stento lo stipendio degli operai. Significa crisi, significa chiusura, significa cassa a zero ore e poi licenziamenti collettivi. Fra i fornitori, le controllate di Gucci sono le uniche a poter anticipare la cassa ai dipendenti. Per tutti gli altri operai non c’è nulla, e Gucci non si assume alcuna responsabilità.

È questo il punto che accomuna le tantissime vicende che stanno interessando il settore del tessile, della moda e del lusso (ma non solo). Certo, non sono tutte uguali, in alcuni casi siamo di fronte a vero e proprio caporalato, in altri – come quest’ultimo – “solo” a forme sistemiche di contrazione del costo del lavoro. Eppure, l’outsourcing dilaga nel tessuto produttivo italiano e sempre, nella catena degli appalti e dei subappalti, l’azienda madre non risponde e sostiene di ignorare ciò che avviene nelle ditte a cui affida la produzione.

Il settore della moda, del tessile è del lusso è particolarmente interessato dal fenomeno. E questo è particolarmente spregevole, perché si tratta di grandi brand del Made in Italy che mettono sul mercato prodotti a costi proibitivi e ottengono profitti stellari. Eppure, la legge n. 148 del 2011 ha introdotto nel Codice penale il reato di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, prevedendo per i caporali la reclusione da cinque a otto anni e una multa da 500 a 1000 euro per ogni lavoratore coinvolto. Soprattutto, il Decreto legislativo n. 276 del 2003, sulla responsabilità solidale del committente, obbliga il committente a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto (TFR), nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi.

Dunque, non solo non possiamo più accettare di essere spettatori inermi di una diffusa situazione di illegalità economica, di un “far west” fatto di migliaia di aziende con un ciclo di vita breve programmato, che eludono sistematicamente e scientemente i controlli operando al di fuori della legge e traggono il loro profitto da uno sfruttamento illimitato. Non possiamo accettare che – attraverso la catena dei subappalti – i soggetti solvibili scarichino sui terzisti la responsabilità dei lavoratori e che ciò si traduca in retribuzioni non corrisposte, contribuzioni non versate, mancata sicurezza.

Non possiamo accettare che su questo sistema si appoggino i grandi brand della moda Made in Italy, sostenendo di non essere responsabili, di non sapere ciò che accade lungo la propria filiera. Chiunque compri quelle giacche in cashmere, quelle borse griffate, quei divani di lusso dovrebbe sapere che sta pagando la voracità di questi padroni.

Ma quante volte, nelle aule del Parlamento e sui mezzi di informazione, dovremo denunciare casi simili? Quanti processi si dovranno svolgere, quante teste spaccate, quante situazioni di schiavitù, prima che il governo si muova? Che smetta di ignorare l’illegalità che si nasconde nelle pieghe delle esternalizzazioni?

Certo, difficile che si muova in controtendenza chi ha voluto il nuovo Codice degli appalti (d.lgs 36/2023), che ha introdotto l’“appalto integrato”, ossia l’affidamento di progettazione ed esecuzione dei lavori allo stesso operatore economico; che ha stravolto il principio che impediva a un lavoro in subappalto di essere oggetto di un ulteriore subappalto, permettendo alla Stazione appaltante di avviare una sequela infinita (“a cascata”) di cessioni di lavori ad altre imprese. Un incentivo alla creazione di scatole vuote, fatte per sfruttare il lavoro e aggirare le norme, in primis quelle sulla sicurezza.

Ma non smetteremo di chiedere che si apra una commissione d’inchiesta su appalti, esternalizzazioni, lavoratori somministrati e finte cooperative nel mondo del tessile, del lusso e della moda (e non solo). Di chiedere una revisione del Codice degli appalti.

Il Made in Italy non può essere lo scudo dell’illegalità. Serve un salario minimo legale, certamente, ma la legalità e i diritti devono tornare in tutta la filiera.


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