Il disincanto di Ottieri sul mondo della fabbrica
Di Antonio Donnarumma, il protagonista del libro di Ottiero Ottieri, si conosce poco o niente. Da quel che traspare sulle pagine, dev’essere un giovane volenteroso e testardo, di origini umili, nato tra l’Irpinia e il Casertano (è da lì che viene l’origine del cognome campano), un po’ maldestro e irruento nei modi, però deciso a risolvere il problema della disoccupazione, anche se non troppo disposto a convincersi che nel secondo Dopoguerra il significato della parola operaio va modificandosi rapidamente e bisogna acquisire competenze sofisticate anche per semplici incarichi manuali. Su questo argomento il suo piglio s’impunta, la voce s’ingrossa e aumenta il tasso di aggressività che è nel carattere. Per lui conta solo guadagnarsi da vivere con la fatica di ogni giorno (non dice lavorare, dice faticare, che è un’espressione più cruda e primitiva, adatta a uno schiavo non a un uomo libero). Il suo obiettivo è trovare un’occupazione comoda che gli eviti di emigrare al Nord Italia, com’è avvenuto per tanti altri suoi coetanei, sbarcati nella Milano o nella Torino del boom economico secondo la più stereotipata coreografia della valigia di cartone, e non si farebbe scrupolo, in barba a ogni remora morale, di ricorrere a qualche potente di turno, un “pezzo grosso” come dicono al Sud – un politico, un monsignore – pur di ottenere un trattamento speciale durante il colloquio di assunzione che gli toccherà sostenere se vorrà entrare nella nuova, avveniristica fabbrica meccanica.
A grandi linee è questo il ritratto dell’aspirante operaio che Ottieri estrae da un immaginario antropologico conosciuto in presa diretta, durante i mesi in cui gli è capitato di partecipare alla selezione del personale per la Olivetti di Pozzuoli. Il libro prende forma proprio da questa esperienza, ma non è autobiografico e soprattutto fa capire ben presto che ha le carte in regola per diventare un paradigma nel dibattito su civiltà meridionale e sviluppo tecnologico. Siamo in una regione arretrata e a metà anni 50 un imprenditore visionario come Adriano Olivetti decide di aprire un elegante stabilimento in riva al Tirreno, destinato a produrre macchine da calcolo. Che l’intera area industriale fosse qualcosa di anomalo rispetto al panorama delle fabbriche sparse un po’ ovunque, in Italia, non era difficile intuirlo. Già prima che entrasse in funzione si parlava dell’originalità del progetto che portava la firma di Luigi Cosenza, un urbanista napoletano legato però a filo doppio con il razionalismo milanese. «Non è un capannone – precisa Ottieri – l’architetto ha progettato una delle più belle fabbriche d’Europa, colorata, circondata da un giardino; e intorno a essa l’infermeria, la biblioteca, la mensa».
Basterebbe già solo questa descrizione per attribuire a questo luogo la nomea di un paradiso dove guadagnarsi un posto e raddrizzare un destino di subalternità. Eppure era sufficiente. Qualcos’altro suscitava attenzione (e forse preoccupazione) nei disoccupati in lista d’attesa e non era soltanto la sorprendente presenza di un laghetto tra le siepi dei viali e i pini marittimi che facevano da cornice all’orizzonte, ma la complessità dei criteri di cooptazione che sono l’argomento principale del romanzo. Davanti al selezionatore transita un campionario variopinto di giovani e meno giovani dai nomi curiosi (a parte il nostro Donnarumma, anche Dattilo, Chiodo, Accettura), tutti smaniosi di entrare nei ranghi di questa fabbrica troppo in avanti rispetto al contesto che le stava intorno, pronti a inventarsi qualsiasi stratagemma pur di essere scelti, una bugia, una minaccia, una promessa, una raccomandazione, eppure incapaci di compilare una banale domanda di assunzione perché analfabeti o inadeguati di fronte ai test psicotecnici che la Olivetti aveva importato dagli Stati Uniti e che costituivano un vero e proprio spauracchio per l’ingenua mentalità da manovale a cui obbedivano Donnarumma e i suoi amici tuttofare. «Verrebbe il desiderio di mettersi accanto al candidato e di vivere lungamente con lui, per dare la garanzia di conoscerlo e rispondere in coscienza alla domanda: “Lo assumo?”», confessa il selezionatore quando si rende conto della difficoltà insormontabile a cui sono sottoposte le persone che ha di fronte. «Invece la psicotecnica è l’opposto di questa vita in comune; essa è una conoscenza condensata, resa necessaria dal numero e dalla fretta».
Oltrepassare il cancello della fabbrica diventa un’impresa davvero insostenibile ed è da questo sentimento di invalicabilità che acquista significato il titolo del libro: l’assalto è l’azione disperata e ultimativa, perfino violenta, tentata da Donnarumma e dai suoi colleghi disoccupati, dopo aver capito che il loro futuro non sarà lì, non in quella fabbrica così tanto all’avanguardia da risultare respingente, avveniristica ed esclusiva come solo possono essere i meccanismi di un’organizzazione scientifica. Il romanzo non dice che ne sarà di questa umanità disperata. Sappiamo però che su questo tema lo sguardo di Ottieri sceglie la prospettiva del disincanto e, dinanzi al discorso visionario e trasognato che il presidente dell’azienda rivolge alle maestranze il giorno dell’inaugurazione, sembra non credere fino in fondo a quel che giunge alle orecchie. «La fabbrica fu quindi concepita sulla misura dell’uomo…» è Adriano Olivetti che sta parlando sul ballatoio. «Sulla misura dell’uomo, perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza». Mentre tutti ascoltano con aria meravigliata, il selezionatore forse pensa: arriverà mai il giorno in cui il lavoro alla catena di montaggio porterà riscatto anziché sofferenza? A Pozzuoli e in Campania, in Italia, in Europa, difficilmente un’altra azienda potrà gareggiare in bellezza con quella che si inaugura quel giorno, ma c’è un’ombra che si proietta sulla plebe dei disoccupati. Il moderno che più moderno non si può è arrivato nel Mezzogiorno, ma il Mezzogiorno non si è fatto trovare pronto.
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