Pace Medio Oriente: nuove opportunità di dialogo
18.07.2025 – 10:15 – Mentre la cronaca internazionale scorre stanca tra le pieghe consunte dei conflitti irrisolti, il Medio Oriente continua a mutare volto. Sottotraccia, lontano dai riflettori mediatici, si muovono attori storicamente rivali, dando vita a scenari inediti, aperture sorprendenti, spiragli di dialogo che paiono infrangere il fatalismo della guerra permanente. È in questo contesto che si inserisce la nuova riflessione del generale Stefano Dragani, che da osservatore attento e profondo conoscitore degli equilibri geopolitici, legge e interpreta i segnali del presente alla luce di una domanda centrale: è ancora possibile immaginare un Medio Oriente di pace? L’analisi parte da due eventi apparentemente scollegati, eppure intimamente connessi: da un lato i colloqui tra Iran e Arabia Saudita, avvenuti recentemente a Gedda, dall’altro le inaspettate dichiarazioni di Abdullah Öcalan, storico leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), che ha annunciato la fine della lotta armata contro la Turchia. Due vicende che, lette con attenzione, rivelano una comune esigenza di stabilità, sicurezza, e un nuovo equilibrio tra interessi economici, strategici e culturali.
Il ritorno del dialogo tra Teheran e Riad
“È il mondo sciita che parla con quello sunnita”, osserva Dragani. Una frase che, da sola, racchiude tutta la portata storica dei recenti contatti tra Mohammed bin Salman e il ministro iraniano Abbas Araghchi. Dopo anni di scontri indiretti e rivalità regionali, Arabia Saudita e Iran sembrano aver compreso che la posta in gioco supera ogni antagonismo religioso o ideologico: la sopravvivenza delle proprie economie e la salvaguardia delle infrastrutture energetiche, sempre più esposte ai venti del conflitto. Per le monarchie del Golfo, la strategia israeliana volta a contenere Teheran – attraverso l’offensiva contro Hamas, Hezbollah e gli Houthi – ha sì ridotto l’influenza iraniana, ma ha anche generato un senso di precarietà sistemica. Il recente confronto diretto tra Israele e Iran ha agitato le cancellerie arabe, facendo temere un’escalation incontrollabile. “L’instabilità non è più sostenibile”, sottolinea Dragani. “E la diplomazia, oggi, non è solo una scelta politica, ma una necessità economica”. In questa luce, la condanna saudita dell’“aggressione” israeliana e il sostegno al dialogo bilaterale con Teheran assumono un valore strategico preciso. “È un riavvicinamento pragmatico, certo non privo di ambiguità, ma che rappresenta comunque una cesura rispetto al passato recente”, afferma Dragani.
Il caso Pezeshkian e le nuove aperture iraniane
A rinsaldare l’impressione di un cambiamento in atto, è intervenuta anche l’intervista del presidente iraniano Masoud Pezeshkian a Tucker Carlson, trasmessa il 7 luglio scorso. Pezeshkian – riformista, ex cardiochirurgo e figura simbolica della nuova dirigenza – ha ribadito la volontà dell’Iran di evitare la via dell’arma nucleare, proponendo il ritorno a una soluzione diplomatica. Ma ha anche attaccato duramente l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), accusandola di parzialità e di aver favorito Israele nella localizzazione dei siti sensibili iraniani. Non solo: Pezeshkian ha denunciato apertamente Tel Aviv per aver tentato di ucciderlo durante i dodici giorni di escalation bellica. Nessuna reazione da Washington, nessuna smentita da Gerusalemme. Silenzi pesanti, che lasciano intuire quanto sia fragile l’equilibrio. “L’elemento più interessante – osserva Dragani – è l’emergere, all’interno dell’establishment iraniano, di una narrazione meno ideologica e più orientata a ristabilire un ruolo per Teheran sul piano negoziale.” Un segnale, forse, che anche la Repubblica Islamica è disposta a rivedere, almeno in parte, i suoi paradigmi strategici.
Öcalan: fine della lotta armata?
Ma è sul versante turco-curdo che si apre un altro fronte inatteso. Il 9 luglio, in un video registrato a giugno e diffuso a sorpresa, Abdullah Öcalan – detenuto da decenni nell’isola-prigione di Imrali – ha dichiarato conclusa la stagione della lotta armata del PKK contro la Turchia. Ha rinunciato all’obiettivo della creazione di uno Stato curdo indipendente, chiedendo ai militanti il disarmo volontario e l’apertura di una fase politica e diplomatica. Parole che segnano una svolta epocale. “La dichiarazione di Öcalan – scrive Dragani – non è solo un gesto politico, ma un invito alla normalizzazione. È il tentativo di chiudere una ferita aperta da oltre quarant’anni.” E, al tempo stesso, rappresenta un’ulteriore vittoria per Recep Tayyip Erdoğan, leader di una Turchia sempre più assertiva sul piano internazionale.
La Turchia e la nuova geopolitica del Mediterraneo
La Turchia di oggi è ben lontana da quella degli anni Novanta. È una potenza regionale a tutti gli effetti, seconda solo agli Stati Uniti in termini di forza militare nella NATO, e attore chiave nei dossier ucraino, mediorientale e africano. Ankara si muove su più tavoli: mantiene relazioni con Kiev e Mosca, sostiene l’espansione commerciale verso l’Africa orientale, difende i propri interessi nel Mediterraneo e nel Mar Nero, e rafforza la propria industria bellica ed energetica. “La strategia turca – afferma Dragani – si fonda su due pilastri: il controllo interno e la proiezione esterna. Erdoğan gioca su più fronti, riuscendo finora a bilanciare fedeltà NATO e rapporti con Mosca.” In questo scacchiere complesso, la normalizzazione con il PKK potrebbe rafforzare ulteriormente la sua posizione, consentendo a Ankara di presentarsi come un attore affidabile e stabile, persino mediatore tra mondi opposti.
La pace è ancora possibile?
Il generale Dragani conclude la sua analisi con una riflessione che è al tempo stesso un appello: “Abbiamo il dovere di credere nella pace. Anche se tutto ci spinge verso il contrario, anche se la guerra sembra una condizione strutturale, è solo nel dialogo che possiamo costruire un futuro diverso.” E cita Germaine Tillion, l’antropologa francese che vedeva nel confronto con l’altro la via della pacificazione. Oggi, in uno scenario mondiale segnato dalla paura e dal disincanto, quelle parole risuonano con una forza rinnovata. “Siamo chiamati – conclude Dragani – a un atto di saggezza collettiva. A non rassegnarci alla logica del conflitto, ma a cercare, con ostinazione, quella fessura di luce che può aprire la via alla convivenza. Il futuro, in fondo, è tutto da scrivere. E spetta a noi decidere con quale penna farlo. Relazioni pericolose: tra Iran, Arabia Saudita, Turchia e Kurdistan, segnali di una pace possibile? Relazioni pericolose: tra Iran, Arabia Saudita, Turchia e Kurdistan, segnali di una pace possibile?
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Stefano Dragani già generale di Brigata dell’Arma dei Carabinieri. Laureato in Scienze Politiche e in Scienze della Sicurezza, ha ottenuto anche un master di II livello in Studi Africani. Dopo incarichi operativi in Italia, ha svolto missioni internazionali in Albania, Kosovo, Ghana, Somalia, Ruanda e Belgio, lavorando come esperto di sicurezza e stabilizzazione in aree di crisi, anche per conto dell’Unione Europea. Ha tenuto docenze e seminari in Italia e all’estero – dall’Università di Padova alla Scuola Ufficiali dei Carabinieri, fino ai congressi ONU sul terrorismo globale – ed è stato special advisor sia del Ministro della Sicurezza della Somalia che delle forze di polizia di Rwanda e Uganda.
È autore di quattro saggi pubblicati da Fawkes Editions, casa editrice romana: “Frammenti di vita”(2022), dedicato alla sua lunga esperienza africana; “La Cavalleria: uno stile di vita” (2023), un affresco storico-militare; “Conflitti e parole” (2024), centrato sui rapporti tra Africa e grandi potenze; e “Un altro mondo” (2025), un’analisi attuale delle crisi in Medio Oriente e Ucraina. Ha vissuto sedici anni in Friuli Venezia Giulia, cinque dei quali a Sistiana, alle porte di Trieste, città a cui è profondamente legato. La sua visione internazionale si coniuga con una forte consapevolezza del ruolo strategico dell’Italia e del nostro territorio nel contesto geopolitico globale.
[f.v.]