Jannik Sinner, l’intervista esclusiva al numero uno del tennis: «L’amore giusto non distrae: i migliori tennisti hanno tutti moglie e figli»
Jannik Sinner è il primo italiano ad aver vinto, oggi 13 luglio 2025, il torneo di Wimbledon. Questa è l’intervista al tennista italiano pubblicata sul numero 9 di Vanity Fair in edicola fino al 27 febbraio 2024.
Nella suite che lo ospita non c’è traccia di Norm. Chiamano con questo affettuoso nomignolo i veri appassionati di tennis la Norman Brookes Challenge Cup, la riproduzione in argento del Vaso Warwick di epoca romana, data in premio ai vincitori del torneo di singolare maschile degli Australian Open. Al suo posto, in compenso, c’è un enorme vassoio che sembra d’argento anch’esso, sul quale sono disposti, secondo una geometria modulare che si ripete sempre uguale, spicchi di frutta più o meno esotica, distanti un dito l’uno dall’altro: triangolino d’ananas, cubetto di mango, pezzetto di kiwi, mezza fragola, mirtilli.
Jannik Sinner – unico italiano ad avere sollevato al cielo dell’emisfero boreale Norm – mi accoglie pochi giorni dopo la sua impresa epica, in boxer neri, fresco di doccia. A trovarselo così, davanti agli occhi, resta un mistero da dove arrivi quella potenza fisica che l’ha fatto riemergere dall’apnea della finale giocata contro Daniil Medvedev, nella quale, dopo due set persi 6-3, le speranze di una vittoria storica sembravano azzerate. Le valigie sono aperte, un po’ qua e un po’ là, nella stanza. Sinner si veste davanti a me e si accomoda su una di quelle pompose poltrone coi braccioli, in velluto capitonné, degli hotel romani. Se non fosse per i pantaloncini e la maglietta colorata, sarebbe un principe sul suo trono.
I miei colleghi hanno scommesso che avrei cavato un piccolo ragno dal buco di questa intervista. La fama della sua discrezione la precede. È solo timidezza, o c’è anche dell’altro?
«Cioè?».
Non sembra esattamente a suo agio nel raccontarsi.
«Mi piace parlare di tennis, e dello sport in generale. Ma se si riferisce alla vita privata, è vero, voglio mantenerla tale. Voglio proteggere le persone che mi sono più vicine, tenendole fuori da tutto ciò. Lo vivo come un piccolo compito da svolgere, quasi un dovere: mi hanno aiutato, da giovane, ad acquisire sicurezza in me stesso, e oggi in qualche modo voglio tutelarle».
Non è timidezza, dunque?
«Potrei anche parlarne. Ma le persone che mi sono vicine la pensano come me, su questo tema. Perché sono molto simili a me: ci capiamo con uno sguardo, in un secondo».
Ha dichiarato che non le piacciono le interviste perché le chiedono sempre le stesse cose. Mi dia una mano: mi suggerisce una domanda che non le hanno mai fatto e che vorrebbe le venisse finalmente fatta?
«Non c’è… Quando fai tante interviste e ti fanno le stesse domande, e ti tocca dare sempre le stesse risposte».
Non potrebbe variarle un po’, le risposte?
«Sto sempre attento a quel che dico, o almeno ci provo. Rispondere in modo non del tutto giusto, o vero, sarebbe come buttarmi nel fuoco. Le risposte sono sempre quelle perché sono onesto, mi piace andare dritto al punto».
Eccole una domanda diretta, allora: oggi è lei «quello da battere»?
«“Quello da battere” è una parola grossa. Sono il numero 4 al mondo. Per il momento. Certo è un buon risultato, ma adesso devo ancora lavorare, prepararmi a tutto, perché ormai gli avversari mi conoscono bene, anche le mie debolezze. Sono uno di quelli da battere, diciamo».
(Sinner è diventato numero 3 dopo la vittoria del 18 febbraio a Rotterdam, ndr).
Gli altri chi sono?
«Zverev e Medvedev stanno giocando molto bene. Carlos (Alcaraz, ndr) ha vinto già due Slam e ha due anni meno di me. E poi c’è Nole (Đokovic, ndr). Nole è Nole».
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