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Nati nella scena indipendente americana, guidati dalla voce lieve e meditativa di Emily Sprague, i Florist  hanno saputo trasformare la delicatezza in una forma di resistenza. Il loro nome, scelto senza troppa premeditazione, suggerisce già questo sguardo poetico carico di risonanze: comporre con ciò che è vivo, sapendo che è destinato a sfiorire. Utilizzando le parole della stessa Sprague: Florist è una parola gentile che tiene insieme vita e perdita”.
Il linguaggio musicale dei Florist si muove dunque su un crinale sottile, tra folk minimale, ambient elettronico e bedroom pop in bassa definizione. È una musica che sembra registrata senza intenzione di essere pubblicata, eppure porta con sé una lucidità compositiva rara. Le strutture sono semplici, spesso ripetitive, ma costruite con precisione geometrica: pochi accordi, piccole variazioni timbriche, elementi di campo (pioggia, voci, vento) e una voce che racconta come se scrivesse a una persona sola. Le connessioni con il mondo musicale contemporaneo ci sono, ma vanno cercate più nello spirito che nel suono. I Florist condividono un certo territorio emotivo con artisti come Phil Elverum, Grouper o Julie Doiron. Come loro, praticano una forma di cantautorato sottrattivo, dove la narrazione lascia spazio all’atmosfera, e dove anche il silenzio diventa parte dell’arrangiamento. Per certi versi, possono ricordare anche gli Yo La Tengo molto più raccolti o i primi dischi di Sufjan Stevens, ma senza orchestrazioni o barocchismi: i Florist restano sempre prossimi all’osso.

Gli esordi

Il gruppo prende forma nei primi anni Dieci in un piccolo sobborgo nello stato di New York, dove alcuni studenti si muovono tra arte visiva e sperimentazione sonora, lontani dai riflettori. In questo paesaggio laterale, quasi fuori scena, i quattro si incontrano per una serie di coincidenze minime. Sprague è la figura decisiva attorno a cui ruoterà il mondo dei Florist. Cresciuta tra cittadine silenziose e boschi del Nordest americano, compone le sue prime registrazioni in solitudine, usando pochi strumenti: una  chitarra acustica, sintetizzatori ambientali e un inseparabile laptop. Da sempre appassionata di scrittura, è una cantautrice atipica. Il suo sguardo sul mondo somiglia più a quello di una fotografa che a quello di una narratrice. I suoni diventano per lei paesaggi interiori, scandagliati con un’attenzione quasi zen per il dettaglio. Non a caso – accanto al lavoro con la band – ha anche sviluppato una ricerca solista in campo ambient, con album come “Water Memory (2017) e “Mount Vision (2019), in cui riflette sulla relazione tra mondo esterno e mondo percepito attraverso una giustapposizione evocativa: da un lato la semplicità apparente della musica, che richiama placide visioni naturali; dall’altro la complessità profonda dei suoni, che allude a una percezione emotiva stratificata. È però con il progetto Florist che questo approccio prende forma per la prima volta in maniera realmente collettiva e condivisa.

floristvert3_01Il primo incontro determinante avviene nel 2010, quando Sprague conosce il futuro bassista del gruppo Rick Spataro, che la aiuta a registrare alcuni dei suoi brani.  Jonnie Baker, coinquilino di Spataro, entra nel quadro e i tre iniziano a suonare insieme con un’intesa spontanea. Un anno più tardi si aggiunge Felix Walworth, batterista e figura già familiare a Emily: i due avevano suonato insieme nei Told Slant, una band lo-fi, guidata dallo stesso Walworth, molto attivo in numerosi progetti paralleli (tra cui anche Bellows, Gabby’s World e altri orbitanti attorno alla scena underground di New York). È così che prende forma ciò che oggi conosciamo come Florist. Ma più che una band, il progetto assomiglia a una specie di alleanza affettiva e creativa.
Nella fase iniziale, la dimensione collettiva del gruppo resta fluida: Sprague è spesso sola nelle registrazioni, mentre gli altri membri intervengono in modo episodico. I Florist non sono ancora una band strutturata, ma piuttosto una costellazione affettiva, parte di un più ampio ecosistema creativo inscritto nella scena underground della East Coast americana, dove la condivisione emotiva conta più di una strutturazione rigida.

In questa lunga fase embrionale, fatta di demo autoprodotte, esperimenti a bassa fedeltà e una serie di pubblicazioni informali che circolano soprattutto su Bandcamp, il gruppo comincia a costruire un linguaggio personale.
Nel loro profilo Spotify i Florist indicano il 2013 come anno di formazione e le Catskill Mountains come luogo d’origine. Proprio in quell’anno pubblicano We Have Been This Way Forever, una raccolta lo-fi dal tono diaristico e discontinuo, dove si avvertono già i tratti distintivi del loro stile: elettronica casalinga, melodie elementari, testi scritti come se si stessero rivolgendo a una singola persona.

L’anno successivo Emily compone 6 Days Of Songs, raccolta realizzata dopo un lungo periodo di inattività dovuto a un grave incidente in bicicletta. Il disco nasce come esercizio di guarigione: sei micro-canzoni registrate in altrettanti giorni, tutte per sola chitarra acustica, della durata inferiore ai due minuti. Più che brani completi, istantanee emotive, bozze fragili che trovano forza proprio nella loro incompiutezza.

L’Ep Holdly del 2015 è il primo lavoro che ottiene un discreto riconoscimento tanto che il collettivo viene inserito nella rivista Stereogum in una ristretta lista di artisti emergenti da tenere d’occhio. Pubblicato dall’etichetta indipendente Double Double Whammy, il disco è un piccolo manifesto della loro estetica. Musicalmente è costruito su una grammatica povera e rigorosa: i brani si aprono lentamente semza mai cercare il climax emotivo. Le melodie si ritraggono ma che parlano di connessione di “Cool And Refreshing”, l’assenza di orpelli e l’estetica dell’incompiuto della title track conservano uno spirito dimesso e casalingo. Non c’è alcuna ricerca di pulizia o di perfezione formale: fra una traccia e l’altra, si sentono fruscii e respiri dentro il mix. Dominano le chitarre acustiche ovattate, sintetizzatori analogici dal suono tenue, drum machine appena accennate. In altre parole, sono le bozze di quello che diventerà il loro speciale marchio di fabbrica.

Pochi mesi dopo viene pubblicato il loro primo Lp, The Birds Outside Sang, che in larga parte nei testi riprende la lunga convalescenza dopo l’incidente in bici di Sprague. Costretta in una stanza, la cantautrice crea atmosfere bedroom non certo rassicuranti, sulle quali aleggia una lieve e persistente inquietudine. È la solitudine non più scelta, ma imposta, e per questo capace di generare crepe nella quiete apparente. Eppure, non tutto ciò che viene da fuori è minaccia. Nella title track, ad esempio, il canto degli uccelli che proviene dall’esterno si fa simbolo di una possibile apertura, un richiamo alla vita che continua oltre le pareti dell’ospedale. L’inizio della traccia è minaccioso: tastiere dilatate, una voce scomposta che, fra rumori di fondo e una lunga, inquieta sospensione, lascia lentamente emergere una melodia leggerissima ma rassicurante.
Con questo album, i Florist iniziano ad aprirsi a una dimensione più ampia, collettiva, pur conservando l’intimità domestica che aveva segnato i lavori precedenti. Non si tratta di una svolta nel senso tradizionale: non c’è una frattura netta col passato, ma un’estensione, una dilatazione dello spazio espressivo. Come se la stanza in cui erano nate le prime canzoni – rifugio silenzioso e personale – avesse iniziato ad allargarsi, ad accogliere altri suoni, altri respiri. Un processo di apertura che non annulla, ma, anzi, amplifica l’idea iniziale già presente nei primi lavori rudimentali, in cui l’interiorità prendeva forma in modo essenziale e istintivo.
I trenta minuti esatti che compongono il disco sono attraversati da una pluralità di suoni e intuizioni: l’austera elettronica di “Dark Light”, il canto corale e nostalgico di “Rings Grow”, turbato da nuvole sintetiche e interrotto da una batteria insolitamente energica per i loro standard; e poi la sofferta cronaca dell’incidente seguita dalla via crucis ospedaliera raccontata in “A Hospital + Crucifix Made Of Plastic”. 

Wouldn’t There are hands all over my naked body
And I’ve got a sting in my right side arm
And it’s bleeding to my veins, my veins, my veins

In “Thank You” lo stile diaristico si avvicina al parlato, in una sorta di lettera aperta con cui Sprague ringrazia, senza retorica, amici, familiari e perfino se stessa. “White Light Doorway” introduce una chitarra acustica e un ritmo appena country, mentre “1914” assume i toni di un canto popolare intonato in una locanda, fino alla chiusura dolce e sognante di “Only A Prayer, Nothing More”.

Perdersi e ritrovarsi

floristalbumIf Blue Could Be Happiness
arriva poco più di un anno dopo l’esordio, ma sembra appartenere a un altro tempo, forse anche a un altro spazio. A differenza del primo lavoro, dove le suggestioni elettroniche e le inquietudini quasi astratte creavano un paesaggio sonoro eterogeneo e sperimentale, qui i Florist scelgono di fare un passo indietro e abbracciare una forma più intima, disadorna, vicina alla fragilità acustica già esplorata nell’Ep Holdly. Il blu, evocato nel titolo, è molto più che una tinta emotiva: attraversa l’album come un filtro percettivo, tingendo ogni cosa finanche i testi:

And I know I love you Blue
It’s the color in my heart and it’s been there all along and
I’ll keep it after death

If Blue Could Be Happiness si fonda su una struttura minimale e ciclica, fatta di arpeggi rarefatti, melodie sussurrate e arrangiamenti sottili che sembrano costruiti più per sottrazione che per accumulo. Le canzoni scorrono con una malinconia discreta, mai melodrammatica, lasciando spazio al silenzio tanto quanto al suono.Blue Mountain Road” è attraversata da un minimalismo fragile: brevi soffi di fiati e tenui inserti elettronici accompagnano la voce di Sprague. C’è qualcosa nella scelta timbrica e nella sospensione armonica che ricorda i momenti più quieti di Mount Eerie. In “Understanding The Light”, il pianoforte e la chitarra acustica si rincorrono come riflessi sull’acqua. È un brano che, come suggerisce il titolo, tenta di trovare una forma di luce in mezzo al dolore. Sprague affronta, infatti, in questo album, la perdita della madre. Il lutto è il cuore silenzioso del disco, e si riflette in ogni traccia. C’è un’evidente affinità emotiva con “Carrie & Lowell” di Sufjan Stevens: anche qui la musica nasce dal dolore della perdita genitoriale ma cerca, attraverso l’arte, una forma di quiete, una via d’uscita luminosa.
La luce ritorna in “Thank Your Light”, ma è un bagliore notturno: il blu profondo del cielo stellato, più che la luce diurna. “Glowing Brightly” si apre con apparente semplicità, ma nasconde una consapevolezza intensa: un’invocazione gentile alla memoria che filtra nei momenti più cupi. La canzone che dà il nome all’album rappresenta la sintesi più compiuta dell’intera raccolta. “If blue could be happiness/ then that’s all I’d want”, ripete Sprague con voce limpida e stanca, come un mantra. Il blu non è solo tristezza, ma luce smorzata, respiro lento, un altro modo di stare al mondo, senza il bisogno costante di rincorrere un forzato entusiasmo. Qui il paragone con Elliott Smith non è fuori luogo: stesso equilibrio tra melodia e malinconia, stessa arte di rendere universale un dolore privato, senza mai risultare patetici.

Dopo la morte della madre, Emily Sprague sente il bisogno di allontanarsi, nel tentativo di ricostruirsi in un ambiente nuovo: si trasferisce a Los Angeles, cerca sollievo nella distanza e nel silenzio, e si dedica alla composizione dei già citati album di musica ambient. In questo contesto nasce Emily Alone, un album pubblicato ancora a nome Florist, ma che nel titolo stesso dichiara la propria natura solitaria, in linea con il rapporto fluido e non convenzionale del progetto. Le dodici canzoni che lo compongono non sacrificano la loro autonomia alle regole del folk introspettivo e nostalgico. Si tratta senz’altro di un disco contemplativo, meditativo, ma solo perché le canzoni sono così potenti da poter star in piedi senza alcun supporto, se non quello dell’anima.
La purezza armonica è commovente: con una narrativa lineare e pochi accordi, Sprague gioca con la prevedibilità dell’indie-folk, reinventandone la natura lo-fi, grazie a una serie di intuizioni pronte a librarsi con leggerezza, fino a lambire i confini dell’eternità. La rarefazione delle atmosfere rende a volte impalpabile la profondità interiore di molte tracce: il minimalismo di “Moon Begins” o della toccante ballata pianistica “M” è più simile a un’intuizione di Brian Eno che a un soliloquio neofolk. Piccoli e preziosi suoni di melodica, il canto degli uccelli e una chitarra elettrica dai toni morbidi vengono in soccorso di chitarra e voce, accarezzando con un lieve bisbiglio il candore di “I Also Have Eyes”, la cadenza ciclica di “Celebration”, il piglio più “vivace” di “Now” o l’amara angoscia che impedisce all’autrice di cantare in “Still”.
Emily Alone è uno di quei pochi album per i quale non è improprio citare come riferimento creativo ed emotivo il tanto abusato e sfruttato Nick Drake. I dodici affreschi sonori di questo tormentato e struggente racconto della musicista americana sono destinati a seguire in parti le sorti dei lavori del cantautore inglese morto nel 1974: trascurati dal pubblico, ma pronti a resistere all’usura del tempo.

florist_vertDopo il tempo della solitudine arriva anche quello della riconciliazione e, in un certo senso, della catarsi. Nel 2022, ritroviamo Emily Sprague più serena, riconciliata con l’esistenza e nuovamente connessa al nucleo originario dei Florist. Insieme trascorrono una parte dell’estate in una casa immersa nella valle dell’Hudson, un luogo sospeso e protetto, dove prendono forma in modo corale e spontaneo le diciannove tracce che compongono il loro album omonimo Florist dove il dialogo tra le anime della band torna a farsi armonia condivisa. Per complessità e ampiezza visiva, si può considerare il loro lavoro più compiuto e ambizioso.
La trama sonora intessuta da sintetizzatori, strumenti acustici ed elettronica è così densa e stratificata da rendere, in alcuni brani, quasi impossibile distinguere quante mani stiano realmente suonando. Può risultare ambizioso far coesistere questo aspetto con l’essenzialità che da sempre caratterizza l’estetica del gruppo, ma l’esito rivela quanto lavoro sia davvero necessario per rendere credibile una musica che aspira alla purezza dal punto di vista armonico.
Il brano in stile ambient di apertura, “June 9th Nighttime”, con dei placidi sintetizzatori deformati e un costante frinire di grilli, è un preambolo alla magnifica “Red Bird Pt. 2 (Morning)”, ancorata a una melodia di chitarra acustica e valorizzata dalle liriche estremamente suggestive in cui Sprague riflette sulla sua vita dopo la scomparsa di sua madre. Tematica già ampiamente trattata nella prima parte della canzone pubblicata in If Blue Could Be Happiness, ma questa volta elaborata in maniera più serena come anche suggerito dal sottotesto della seconda parte che richiama il giorno contrapponendolo alla notte.
L’album non perde di tono con le successive canzoni: la sentimentale “Spring In Hour”, con l’impeccabile sassofono di Jonnie Baker, la ballata folk “Organ’s Drone”, la cangiante “43”, che inserisce un apprezzabile assolo di chitarra elettrica su una mutevole sezione ritmica jazz.
Oltre la metà delle tracce è puramente strumentale. L’utilizzo dei sintetizzatori è magnifico, specialmente quando si combina con altri strumenti come in “Jonnie On The Porch”, in cui è ancora il sassofono di Baker protagonista. In alcuni casi si tratta di brevi intermezzi che includono suoni dalla natura e campane in lontananza. Tali interludi sono funzionali a introdurre il brano successivo e possono essere meglio apprezzati in un ascolto integrale dell’album.
Le tracce cantate risultano invece immediatamente gradevoli anche a un primo ascolto. Nel video di “Sci-Fi Silence” i membri della band fluttuano nello spazio cosmico accompagnati dallo strimpellio di una chitarra e da una tastiera. Gli immancabili sintetizzatori e un’intermittente batteria fanno da sottofondo alle parole di Emily che ripete ossessivamente: “Non sei quello che ho ma quello che amo” (“You’re not what I have but what I love”). Per lei e per la sua band, non è più tempo di rivolgere lo sguardo indietro verso i “troppi passati”. Nulla che necessiti di riposo verrà calpestato d’ora innanzi, come promesso in “Feathers” (“Careful not to tread on anything needing rest”). Non è il tempo che guarisce le ferite ma accettare quel che ci offre la vita. La musica non è mai nostalgica e non ha l’ambizione di guardare al futuro. I frammenti fugaci di emozioni o stati d’animo catturati dai loro brani sembrano fluttuare in uno spazio che non conosce lo scorrere del tempo.

Incantesimi ed effimere dissolvenze fanno da sfondo al successivo Jellywish (2025). Con il suo gioco di parole tra “medusa” e “desiderio”, il titolo è emblematico per un gruppo che ha fatto della trasparenza e dell’essenzialità il proprio tratto distintivo. I brani si sviluppano attorno a un fingerpicking placido e minimale, su cui si adagia la voce ipnotica e quieta di Emily Sprague. È lei, più che gli arrangiamenti, a dettare ritmo e umore del disco. Spesso, la band si ritrae quasi completamente, lasciando che ogni elemento si dissolva nel racconto della frontwoman. Questa scelta, per un gruppo capace di evocare mondi interi con una pausa o un’ombra sonora, suona come un passo leggermente più trattenuto, quasi in apnea: l’estetica della sottrazione, se portata all’estremo, rischia di rarefare l’emozione invece di amplificarla.
Risultano più riusciti, infatti, i momenti in cui i Florist si aprono, si espandono, respirano insieme. In “Have Heaven”, forse il brano più luminoso del disco, la scrittura si fa più viva, il tessuto sonoro si allarga con eleganza tra languori folk e melodie appena accennate ma cariche di tensione emotiva. È in questi slarghi che il gruppo ritrova la propria dimensione collettiva, tornando a essere un ensemble e non solo una cornice per le liriche come sempre molto curate. Lo stesso vale per “This Was A Gift”, che nel suo finale in crescendo si affida a un pianoforte intenso e risonante, o per “Gloom Designs”, dal tono vagamente country, intimo e pastorale, in bilico tra luce e malinconia, quasi un’eco del Sufjan Stevens di “Seven Swans“.
“Moon, Sea, Devil” cattura con il suo incedere lieve e sfuggente, come se ogni nota tentasse di trattenere qualcosa destinato a dissolversi. È uno di quei brani in cui la band riesce a inserire quel dettaglio imperfetto, quella sottile incrinatura che sposta l’equilibrio dal delicato al profondamente umano. Una scintilla rara, che qui si accende con naturalezza, ma che sembra mancare altrove: in una buona metà di Jellywish, la superficie resta troppo liscia, troppo intatta per lasciare davvero il segno.

Contributi di Gianfranco Marmoro (“Emily Alone”)




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