Anna Maria Scarfò, vittima di abusi: «Non basta un numero antiviolenza, urge un sostegno concreto. Altrimenti noi donne perdiamo fiducia nelle istituzioni e la paura prevalere sul coraggio di denunciare»
«Torno a parlare per chiedere ascolto per me e per tutte le donne vittime di violenza, che, spesso, vengono abbandonate a sé stesse» è quanto afferma Anna Maria Scarfò che, nel 1999, a soli tredici anni, è stata ripetutamente abusata dal branco, nel piccolo paese di San Martino di Taurianova, in Calabria. Finché non ha avuto il coraggio di denunciare, è diventata testimone di giustizia e si è ritrovata a vivere un’esistenza piena di limitazioni, oltre alla paura e alle cicatrici indelebili dell’anima.
Facciamo un passo indietro, cosa è successo il 4 aprile del 1999?
«In quel periodo, avevo conosciuto un ragazzo di 20 anni, mi corteggiava e le sue attenzioni mi facevano piacere. Quel giorno era la vigilia di Pasqua, ero andata in chiesa quando mi raggiunse e mi chiese di uscire per chiacchierare un po’. Salii in macchina, inconsapevole del fatto che stavo andando incontro a ciò che ha distrutto la mia vita. Vedendo che si stava allontanando parecchio, gli chiesi di tornare indietro, ma iniziò a insultarmi e picchiarmi finché non arrivammo in questo casolare, in aperta campagna, dove mi violentò con tre suoi amici».
Sul momento raccontò a qualcuno la violenza subita?
«Solo al parroco del mio paese, che però, oltre a farmi fare un test di gravidanza, non mi aiutò. Anzi, appigliandosi al mio stato di agitazione, disse che forse ero confusa e non sapevo bene cosa fosse successo realmente, quindi sarebbe stato meglio tacere per non creare uno scandalo».
Nel frattempo, però, gli abusi sono continuati.
«È stato un crescendo di violenza, insulti e botte da parte di questo branco di 12 uomini. Ero diventata un corpo da passarsi. Me li trovavo davanti alla scuola, mi fermavano mentre andavo in bici a catechismo. Mi minacciavano, se avessi detto qualcosa mi avrebbero ammazzata. Finché, nel 2002, mi intimarono di “prendere” anche mia sorella più piccola. In quel preciso istante ho trovato il coraggio di ribellarmi: lavoravo in una rosticceria, quando entrò un carabiniere gli raccontai tutto ciò che avevo subito in silenzio fino a quel momento».
Così ha denunciato i suoi aguzzini. Qual è stata la reazione della sua famiglia e del suo paese?
«La mia famiglia era scioccata, ma non mi ha sostenuta, ha prevalso la paura per le ripetute minacce. Il paese mi ha additata come la “poco di buono” che ha rovinato la vita a dei bravi ragazzi. Sono stata denominata la “malanova”, ovvero una disgrazia. Alcuni cittadini dissero che mi ero inventata tutto, sostenevano avessi provocato quei ragazzi. Da vittima diventai carnefice, mi ritrovai da sola e sono stata costretta ad abbandonare il mio paese».
Chi le ha teso la mano?
«Soltanto lo Stato. Grazie alla legge sullo stalking, nel 2010, sono entrata in un programma di protezione che mi ha assicurato una casa lontano dal mio paese e una scorta. La mia quotidianità è stata stravolta: ho dovuto cambiare diverse città, non appena cercavo di ambientarmi mi spostavano e dovevo ricominciare daccapo. In cuor mio sapevo di non aver fatto male a nessuno, ma stavo male. Almeno, però, mi sono sentita protetta non solo dai miei aguzzini, ma anche dalle accuse dei miei concittadini».
Nel frattempo ha riacquisito fiducia negli uomini?
«Ci tengo a precisare che chi subisce violenza non dimentica mai, è come un marchio che ci portiamo addosso. É difficile tornare ad avere fiducia nel genere maschile. Però, grazie anche al percorso di psicoterapia iniziato nell’ambito del programma di protezione, piano piano, negli anni, sono riuscita a riaprire il mio cuore a un ragazzo che è diventato il mio compagno nonché padre di nostra figlia che ora ha tre anni ed è la mia fonte inesauribile di forza e coraggio».
Anche per tutelare lei, mentre i suoi aguzzini sono tornati liberi dopo aver scontato la pena di circa 7 anni, è tornata ad esporsi?
«La mia sete di giustizia è insaziabile. Mi hanno rubato la spensieratezza dell’adolescenza, ma non mi hanno privato della dignità che mi guida nella mia battaglia riaccesa in questi ultimi anni. Dall’oggi al domani, senza alcun preavviso, cambiando la Commissione centrale, mi è stata revocata la misura di protezione. Mi sono ritrovata da sola, senza alcun tipo di sostegno. Ho rischiato di perdere la casa e anche mia figlia. Il mio compagno, a causa dei nostri continui spostamenti, non riesce a trovare un lavoro costante. Lo Stato, all’improvviso, mi ha voltato le spalle. Se sono ancora qui, in piedi e sotto un tetto, è solo grazie al Generale di Brigata, Giuseppe Zito, della Polizia Penitenziaria».
Ha mai smesso di credere nelle istituzioni?
«Non proprio, lo Stato per anni è stato la mia famiglia, però dopo l’abbandono improvviso che ho subito, ma anche a seguito del costante aumento di casi di violenza contro le donne, temo che le leggi non vengano applicate. Non basta un numero antiviolenza, urge un sostegno concreto. Altrimenti noi donne perdiamo fiducia nelle istituzioni e finiamo per far prevalere la paura sul coraggio di denunciare».
Cosa spera?
«Mesi fa, due adolescenti di Seminara, nelle vicinanze del mio paese di origine, hanno vissuto il mio stesso incubo: stuprate da un branco e costrette a cambiare città. Questo caso ha riaperto una ferita, con un’amara consapevolezza: a distanza di tanti anni, non è cambiato nulla. Queste ragazze sono state costrette a fuggire per salvarsi. Per me, per loro e per tutte coloro che hanno subito o subiscono tuttora violenza, spero che le istituzioni e la società possano ascoltarci e supportarci realmente per sentirci finalmente libere di costruire il nostro futuro. Quel futuro che vorrei assicurare anche a mia figlia, prendendo le distanze dalla paura e dai sacrifici che tuttora sto affrontando».
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