Il prezzo dell’Occidente – il Giornale
L’intervento americano in Iran segna un punto di svolta nella postura internazionale dell’amministrazione Trump. Resta da vedere quanto questo cambiamento sarà profondo e duraturo. Tuttavia, considerando che da quasi sei mesi ci interroghiamo incessantemente sull’atteggiamento che gli Stati Uniti intendono adottare nel nuovo (dis)ordine mondiale, sui loro rapporti con l’Europa e sulla loro disponibilità a guidare e difendere l’Occidente, non possiamo certo ignorare quest’ultima piega degli eventi.
In una lettura storica, il trumpismo ci è apparso finora come l’ultima e più feroce reazione dell’America profonda al fallimento dei tentativi, condotti dopo la fine della Guerra Fredda, di rimodellare il mondo a immagine e somiglianza degli Stati Uniti. Una reazione non del tutto ingiustificata, per altro. L’espansione del modello americano avrebbe dovuto avvenire in modo pacifico e spontaneo negli anni Novanta; in seguito, dopo l’11 settembre 2001, essere rafforzata da un uso benigno della forza militare. In entrambi i casi si trattava, semplificando molto, di esportare in ogni angolo del Pianeta la democrazia liberale e l’economia capitalistica. Il fallimento di questa missione aveva già indotto gli americani a suonare la ritirata vari anni prima dell’avvento di Trump.
Il secondo mandato di Trump, come accennato, ha espresso questa reazione con particolare virulenza, aggiungendo alla tradizionale impronta neo-isolazionista dell’«America First» una robusta componente che potremmo definire neo-imperialista basti pensare alla sua posizione sulla Groenlandia, sul Canada, sul Canale di Panama. Tuttavia, il principio di fondo resta sempre «America First», «sacro egoismo», il rifiuto categorico di farsi trascinare in controversie che non tocchino da vicino gli interessi degli Stati Uniti. Nei giorni scorsi è emersa con chiarezza l’opposizione del mondo Maga, il bacino ideologico del trumpismo, al coinvolgimento degli Usa nel conflitto tra Israele e Iran. «America First non è Israel First. America First è America First», ha dichiarato Steve Bannon in un’intervista pubblicata sul Corriere della Sera di sabato, poche ore prima dell’avvio dell’operazione «Martello di mezzanotte».
Adesso quel martello smentisce Bannon e fa arretrare l’orologio di diversi anni, riportandoci alla tradizione neoconservatrice, a un repubblicanesimo che precede Trump e fa a pugni con il mondo Maga. Abbiamo detto che è troppo presto per sapere se si tratti di un cambiamento di rotta permanente. Non solo il presidente è imprevedibile, ma dietro la decisione di intervenire in Iran potrebbe esserci un ragionamento ben poco ideologico e molto politico: altro che «neocon» e Maga, è urgente che un successo a buon mercato rilanci una politica estera finora deludente. Che si dimostri permanente o meno, a ogni modo, la novità è indiscutibile: gli Stati Uniti sono intervenuti in soccorso di un alleato.
Questa novità getta una luce diversa anche sul rapporto fra Trump e l’Occidente. Il Presidente è spesso considerato un nemico dell’Occidente: scettico se non sprezzante nei confronti del multilateralismo, ben poco rispettoso del legame transatlantico. Del resto, «America First non è West First», direbbe Steve Bannon. Eppure, la sopravvivenza di Israele è un pilastro simbolico dell’Occidente. O almeno, come vedremo tra breve, di una certa interpretazione dell’Occidente. Per molteplici ragioni che possiamo solo accennare qui: perché l’ebraismo è una delle matrici irrinunciabili della cultura occidentale; perché l’Occidente deve espiare il suo peccato più grave, la Shoah; perché Israele è una minuscola scheggia di Occidente in terra d’Oriente. Inoltre, a danno del suo popolo, il regime iraniano viola tutti i valori occidentali. In sintesi: è difficile non leggere l’intervento americano a favore di Israele e contro l’Iran anche come un atto di leadership occidentale.
Si potrebbe obiettare che l’Occidente si fonda sul rispetto del diritto internazionale; che con quel diritto Israele e gli Usa hanno fatto i coriandoli; che, per salvarsi la vita, questa minuscola scheggia d’Occidente ne sta distruggendo l’anima. L’obiezione non potrebbe essere più pertinente. Ma qui interviene la questione cui facevo cenno sopra: dipende da come interpretiamo l’Occidente. Se è vero che non vale la pena salvarsi la vita quando si è persa l’anima, è altrettanto vero che, quando si perde la vita, l’anima muore con essa. Detto più chiaramente: in un mondo sempre più pericoloso, nel quale il Sud Globale sta diventando sempre più assertivo, la sfida per l’Occidente è trovare un equilibrio tra la difesa di sé e il rispetto dei propri valori, nei molti casi in cui questi due obiettivi non possono più essere perseguiti insieme. In un certo senso, sono le celebri domande che si pone il Rabbino Hillel nel Talmud: «Se io non sono per me, chi è per me? E se io sono solo per me stesso, che cosa sono?».
Segmenti importanti delle opinioni pubbliche occidentali, in modo più o meno categorico, danno priorità al rispetto dei valori, un po’ perché ritengono che l’Occidente debba espiare i propri peccati (coloniali, in questo caso), un po’ perché confidano nei benefici effetti globali del suo esempio. Altri segmenti appaiono invece più attenti alla necessità che l’Occidente difenda se stesso. Israele rappresenta il principale spartiacque tra queste due posizioni.
La politica estera di Trump rimane ondivaga e ambigua, «America First» resta cosa ben diversa da «West First», ma da domenica gli Stati Uniti hanno compiuto un passo sostanziale verso la difesa dell’Occidente. Almeno per come lo interpreta chi pensa che valga la pena difenderlo.
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