Lazio

Memoria nera, della serie “Controinformati o crepa”

Sto arrivando alla visione di una verità d’assieme, coinvolgente delle responsabilità ben più gravi di quelle stesse degli esecutori degli atti criminosi” (Mario Amato, Sostituto Procuratore della Repubblica di Roma, in Audizione avanti il Consiglio Superiore della Magistratura, 13 Giugno 1980)

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Da quel 23 Giugno romano del 1980, giorno nel quale i fascisti dei NAR uccidono il Magistrato Mario Amato, sono passati 45 anni. Per alcuni (tanti, forse troppi) un mucchio di tempo per ancora ricordare quel fatto di sangue, ma per altri (pochi, ma buoni) un tempo sufficiente per farne, invece, Memoria e farci su un minimo di ragionamento che – come si fa in un noto gioco della ‘Settimana Enigmistica’ – unisca i puntini e così chiarisca il disegno politico che si nascondeva dietro quell’azione delittuosa. Tempo utile – e certo necessario – anche a ragionare sulla “visione d’assieme” di cui lo stesso Amato parlava, come avete letto sopra. Ma procediamo con ordine nel raccontare.

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Dunque, quel Lunedì 23 Giugno 1980, il Magistrato Mario D’Amato, palermitano, Classe 1937, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, esce di casa per andare al lavoro.

È senza scorta, pensa di non averne bisogno (o magari l’ha chiesta e non gliela hanno concessa), ma si sbaglia perché, mentre è in attesa alla fermata dell’autobus su Viale Jonio, gli arriva alle spalle un uomo, lo fredda con un colpo di pistola alla nuca e poi scappa a bordo di una motocicletta.

Il killer si chiama Gilberto Cavallini (e oggi ha al suo attivo ben nove ergastoli). A condurre la motocicletta c’è, invece, Luigi Ciavardini, Mandanti dell’omicidio saranno ritenuti Francesca Mambro e Giuseppe Valerio Fioravanti, che pure quel giorno si trovavano a Treviso.

I quattro – come è certamente noto – erano tutti militanti dei NARNuclei Armati RivoluzionariOrganizzazione terroristica fascista con legami assai stretti e con i Servizi, cosiddetti “deviati”, e con la Banda della Magliana (come dire servitori infedeli dello Stato e criminalità organizzata insieme: un bel mix per chi pensava di ragionare e di agire con la propria testa e si ritrovava, invece, ad eseguire ordini usciti da altre teste) e – come è certamente altrettanto noto – tutti e quattro implicati (e condannati) nella e per la strage fascista-piduista della Stazione Ferroviaria di Bologna, del 2 Agosto 1980 (85 morti e oltre 200 feriti)

Riguardo l’omicidio del Giudice Amato così scriverà Rossana Rossanda, sul Quotidiano Il Manifesto del 4 Agosto 1980: “Colpire il fascismo bisogna perché certo chi ha colpito è stato incoraggiato dalla facilità con cui si è potuto uccidere il Giudice Amato che si occupava di inchieste fasciste, nell’indifferenza della procura romana e nell’apatia dei pubblici poteri.”.

Ma per capire meglio come stavano effettivamente le cose in questa storiaccia, cominciando ad unire i puntini di cui sopra, occorre fare un salto indietro nel tempo e arrivare all’8 Marzo di quel 1980.

Quel giorno un ordigno ad orologeria, confezionato con due chili e mezzo di tritolo, venne riposto sotto la finestra dell’abitazione della Parlamentare democristiana ed ex partigianaTina Anselmi a Castelfranco Veneto. La Anselmi non era in casa e comunque l’ordigno non deflagrò per un problema tecnico, ma quell’attentato – anch’esso di marca fascista – anche se poco raccontato e ricordato (la Memoria di questo Paese è spesso fallace, anche quando dovrebbe, invece, ricordare, e bene) si poneva in linea di continuità con il passato, prendendo di mira un soggetto per così dire “istituzionale”.

Passano tre mesi e mezzo e, a Roma, i NAR uccidono Mario AmatoDal 1976 Amato aveva ereditato l’inchiesta sull’eversione nera, condotta, fino al giorno del suo assassinio, avvenuto sempre a Roma, dal Sostituto Procuratore Vittorio Occorsio (1929-1976), ammazzato dal fascista ordinovista Pierluigi Concutellikiller spietato che su quel fatto di sangue scriverà in un suo Libro: «Colpire Occorsio, per noi, significava colpire la Democrazia Cristiana. Consideravamo il giudice romano uno degli ingranaggi di quel meccanismo che si era messo in moto per stritolarci, per tagliare fuori dalla vita politica italiana buona parte dei neofascisti.

Secondo il nostro punto di vista, Vittorio Occorsio era il braccio armato della DC, l’uomo che da piazza del Gesù avevano mandato avanti per annullarci. Perché ad altri, forse, scappava da ridere. Consideravamo Occorsio parte di una strategia odiosa, lo identificavamo come il vettore della potenza del “regime”. Il pubblico ministero romano, ai nostri occhi, era un uomo schierato e la sua storia professionale, purtroppo, sembrava darci ragione. Era stato ed era il titolare di tutte le inchieste scomode del periodo: compresa, naturalmente, quella sul Movimento Politico Ordine Nuovo dei primissimi anni settanta. Il suo nome saltava sempre fuori.» (da “Io, l’uomo nero”, Marsilio, 2008)

Vittorio Occorsio, Magistrato (1929-1976)

Mario Amato non era ben voluto al Palazzo di Giustizia di Roma. Molti suoi colleghi lo evitavano e lì lavorava anche il Giudice Antonio Aliprandi, il cui figlio Alessandro era un militante dei NAR. E anche quando Amato chiede una Audizione al CSM (e la ottiene dieci giorni prima di essere ammazzato) ad ascoltarlo, tra gli altri Magistrati, c’è il Vice Presidente del CSM, Il Magistrato Ugo Ziletti, uomo della P2, la Loggia Massonica Coperta diretta dallo “stracciarolo” pistoiese Licio Gelli che – stando ai Verbali del Processo al nazifascista Paolo Bellini (condannato all’ergastolo per la strage di Bologna) – proprio in quei giorni stava preparando la strage alla Stazione ferroviaria della città delle Due Torri.

È utile a questo punto – sempre per arrivare ad avere la “visone d’insieme” di cui parlava Amato – riportare integralmente una parte (non breve) di un pezzo intitolato “L’omicidio del Giudice Mario Amato e il fallito attentato a Tina Anselmi”, pubblicato sul Quotidiano Domani, in data 10 Settembre 2024 e relativo al fallito attentato dinamitardo messo in atto contro la Sede del Comune di Milano (Palazzo Marino) avvenuto solo due giorni prima della strage fascista-piduista alla Stazione di Bologna, altro attentato dinamitardo di cui poco si è parlato, al tempo e pure in seguito:

 Mario Amato, Magistrato (1937-1980)

Ben maggiore allarme sociale avrebbe potuto destare l’attentato a Milano, avvenuto soltanto 48 ore prima della strage di Bologna, dalla quale, però, fu inevitabilmente messo in ombra.

Nel corso della notte tra il 29 e il 30 luglio 1980, venne fatta esplodere un’autobomba davanti a Palazzo Marino, che provocò la devastazione dell’ingresso del Comune di Milano, soltanto pochi minuti dopo la fine di una seduta del consiglio.

Secondo una modalità già vista nel 1979, una vettura Fiat 132 – oggetto di furto alcuni giorni prima ad Anzio (nel Lazio) – carica di esplosivo, era stata parcheggiata davanti all’ingresso secondario del palazzo in piazza San Fedele.

L’attentato non si trasformò in una strage, perché esplosero soltanto sei chili di polvere da mina tipo “Anfo” contenuti in un tubo di piombo, mentre altri due chili di esplosivo contenuti in un altro tubo di piombo e ulteriori sei chili di esplosivo contenuti in una tanica, non deflagrarono. Restò ferito soltanto un passante.

L’attentato venne rivendicato la stessa notte, con una telefonata anonima alla redazione del Corriere della Sera, ed anche il giorno dopo, con un volantino di una sigla eversiva all’epoca sconosciuta nel panorama milanese (“Gruppi armati per il contropotere territoriale’’.).

Nelle indagini svolte nell’immediatezza non emerse nulla di interesse.

Per contro, alcune dichiarazioni, in merito all’attentato milanese furono rese nel corso procedimento relativo alla strage della stazione di Bologna.

Laura Lauricella, ex compagna di Egidio Giuliani – soggetto avente un proprio gruppo autonomo, ma che era stato legato al MRP e poi ai Nar – rese dichiarazioni di un certo rilievo.

Nella sentenza della Corte di Assise di Bologna emessa in data 11.7.1988 si legge quanto segue: “Il 20 maggio 1981, nel corso di un procedimento penale pendente avanti all’A.G. di Roma, Laura Lauricella, sentimentalmente e politicamente legata a Egidio Giuliani, fra altre cose, dichiarava: “Discutendo della strage di Bologna, Egidio espresse con me un apprezzamento negativo. Espresse con me l’opinione che una cosa del genere potesse esser stata fatta solo da quel ’folle’ di Valerio Fioravanti. Peraltro, mi riferì di voler chiedere spiegazioni a Benito Allatta e Silvio Pompei, ai quali poco tempo prima, nel luglio 1980 (potrebbe anche trattarsi dei primi di giugno, ma sono quasi sicura che fosse a luglio), aveva dato, su loro richiesta, un notevole quantitativo di esplosivo che doveva essere usato a Milano per un “grosso botto”. Benito e Silvio lo tranquillizzarono dicendogli che l’esplosivo era servito per un attentato al Comune di Milano. Non so di che esplosivo si trattasse: ritengo che Egidio lo avesse prelevato dal deposito di lungotevere Sangallo” (cfr. sentenza Corte Assise Bologna I 1.7.1988, 1.3.6).

Anche Raffaella Furiozzi, la quale era stata compagna di Diego Macciò, un militante dei Nar che era vicino a Cavallini – ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia nel 1985 – rese dichiarazioni in data 25.3.1986 al P.M. di Bologna, riportando le confidenze che gli aveva fatto il compagno in vita: “Diego, sempre da Cavallini, aveva saputo che la strage di Bologna era sopraggiunta dopo il fallimento politico dell’omicidio Amato. !rifatti, con l’uccisione del giudice romano ci si riprometteva di sconvolgere l’ambiente di destra attraverso la esaltazione che quel gesto avrebbe prodotto e la repressione che avrebbe innescato, spingendo molti incerti alla latitanza e a un programma preciso di lotta armata … Se non che, per ragioni che non conosco, non vi fu quella reazione repressiva dello Stato, per cui gli effetti politici dell’omicidio Amato non vi furono cosi come ci si riprometteva.

Vi fu allora l’episodio della carica esplosiva collocata in un furgone davanti a Palazzo Marino a Milano. L’azione fu ideata da Cavallini e da persona soprannominata “il Capro”, certamente di Roma, che non so meglio precisare.

L’attentato, che era diretto a realizzare un effetto più devastante rispetto all’omicidio Amato, e quindi a innescare quella repressione che l’omicidio del magistrato non era riuscito a ottenere, si dimostrò anch’esso un fallimento. Qualche giorno dopo ci fa la strage di Bologna: furono Giusva e Francesca a prendere l’iniziativa dopo il fallimento dell’azione di Cavallini” (cfr. sentenza Corte Assise Appello Bologna 16.5.1994, pagg. 245-246).

Come osservato nella sentenza della Corte di Assise di Bologna emessa in primo grado nel processo Cavallini, appare assai poco credibile che l’iniziativa di colpire la Stazione di Bologna fosse stata assunta da Mambro e Fioravanti a causa del fallimento dell’attentato di Milano e nell’immediatezza di esso, come pare emerger dalla predetta deposizione, sussistendo plurimi elementi testimoniali e di ordine logico per affermare che invece che la strage felsinea fosse stata da tempo deliberata e, dunque, non potesse ritenersi frutto di improvvisazione e mera conseguenza del fallimento del precedente attentato. In qualche misura la dichiarazione potrebbe risentire dell’incompleta o imprecisa spiegazione fornita all’epoca dalla fonte dell’informazione.”.

(Fonte: https://www.editorialedomani.it/lomicidio-del-giudice-mario-amato-e-il-fallito-attentato-a-tina-anselmi-xdiesspw) .

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Qui mi fermo nel racconto, anche se forse non ho finito di mettere al loro posto tutti i tasselli di questo puzzle nero (e di Stato). Allora, per rimettere insieme davvero tutti quei pezzi vi consiglio la lettura di un Saggio che gli Editori Laterza hanno mandato in Libreria di recente.

Il Saggio si intitola “Il Nero dei Giorni, Storia del Giudice Amato delle sue indagini e del suo omicidio” e lo ha scritto Mario Di Vito, giornalista del Quotidiano Il Manifesto. Un libro utile perché cerca di riprendere in mano quella “verità d’assieme” a cui Amato era arrivato e cerca di farcene capire l’importanza.

Nell’”Avvertenza”, che apre il Saggio, l’Autore ‘ci avverte’ appunto che quella che sta per raccontare è “una storia piena di colpevoli, ma con pochi sensi di colpa”; una storia in cui “si mettono in fila fatti realmente accaduti e personaggi realmente esistiti”.

Il Libro – come ancora chiarisce l’Autore – vuole raccogliere i pezzi di quella storia “mostrando, sin dove possibile, come si incastrino tra di loro.”. Un proposito che vuole dare una forma precisa alla verità su quell’omicidio, una verità che cambia forma “a seconda del punto da cui si decide di osservarla”. Una verità che il tempo si incarica di rendere sempre più opaca “come se qualcosa – o meglio qualcuno – volesse nasconderla.”.

In Memoria di Mario Amatoè stata intitolata a suo nome l’Aula delle Udienze del Tribunale di Roma. In Viale Jonio, III Municipio di Roma Capitale, proprio nei pressi di quella fermata di autobus dove Cavallini lo colpì a morte, c’è un Monumento che ricorda il Magistrato palermitano, realizzato dallo scultore Antonio Di Campli con la pietra della Maiella. E infine a Rovereto (Trento) – ironia della sorte lo stesso luogo in cui è nato il nazifascista  Giuseppe Valerio Fioravanti – c’è una Via intitolata a Mario Amato.

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Ah, dimenticavo: quattro giorni dopo l’assassinio di Mario Amato precipita in mare, a largo dell’Isola di Ustica, Mar Tirreno Meridionale, il DC9 dell’Itavia sigla: IH870-I-TIGI – Volo civile partito da Bologna, Aeroporto Guglielmo Marconi e diretto a Palermo, Aeroporto di Punta Raisi – con 81 persone a bordo: nessuna di queste persone si salverà. Dunque la strage infinita continua.

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Tante foto vicine che ne compongono, alla fine, una sola. La fotografia che vedete sopra racchiude i volti della quasi totalità delle 81 vittime della strage di Ustica. Per molto tempo, quei volti sono mancati tra i “reperti” di quella strage: nessuno aveva pensato di fare Memoria di quella strage raccogliendo i loro volti, i volti delle vittime, in un puzzle doloroso, ma necessario. Poi quel lavoro pietoso – ma lo ripeto – doveroso, è stato fatto ed è stato un lavoro collettivo, a più mani.

Nella foto vedete dei buchi neri. Un uomo di Marsala – che in quel devastante 27 Giugno 1980 ha perso il fratello, la nuora e la nipote – ha risposto così a chi gli chiedeva una loro fotografia: «Non ce la faccio. Da quel giorno non ho più aperto l’album delle nostre foto di famiglia». Così, in quel puzzle di volti ci sono dei buchi neri, delle feritoie nere di una sagoma che ancora non riesce a comporsi completamente.

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