Cos’è lo stretto di Hormuz e cosa può succedere se l’Iran lo blocca
Tra le coste dell’Iran e dell’Oman si snoda un passaggio marittimo strettissimo, ma strategicamente cruciale: lo Stretto di Hormuz. Ogni giorno, secondo la U.S. Energy Information Administration, vi transitano circa 17 milioni di barili di petrolio, a cui si aggiungono milioni di metri cubi di gas naturale liquefatto.
In totale, oltre il 20% del commercio energetico globale dipende da questa rotta. Le petroliere in partenza da Arabia Saudita, Iraq, Emirati Arabi Uniti, Qatar e dallo stesso Iran sono obbligate a percorrere questo stretto per raggiungere i mercati asiatici ed europei. Facile comprendere perché il blocco eventuale dello stretto, da parte del regime di Teheran, si una delle opzioni sul tavolo come rappresaglia nei confronti di Washington.
Quali opzioni per Hormuz
Dopo l’attacco statunitense ai siti nucleari iraniani e le minacce di Teheran di chiudere Hormuz, i mercati dell’energia reagiscono con nervosismo. Ad Amsterdam, il prezzo del gas è salito del 2% a 41,90 euro per megawattora, mentre il Brent e il WTI hanno registrato un aumento dell’1,12% e 1,15%, rispettivamente, tornando ai livelli più alti da gennaio. Dall’inizio del conflitto, il 13 giugno, il Brent è cresciuto del 13%, mentre il WTI ha guadagnato il 10%.
Il blocco o l’interruzione anche temporanea del traffico navale, dunque, avrebbe effetti immediati e devastanti: impennata dei prezzi del greggio, rischio di carenze energetiche, incremento dei costi industriali e nuova pressione inflazionistica in economie già fragili, in particolare in Europa. I mercati, dunque, si stanno già preparando a uno scenario di forte volatilità. Ma va chiarito che la strategia di Teheran potrebbe non per forza prevedere una chiusura formale: potrebbe limitarsi a rendere lo Stretto un passaggio poco sicuro, come accaduto di recente, il 15 giugno, quando due petroliere sono entrate in collisione nel Golfo di Oman, non lontano da Hormuz.
La decisione finale su un’eventuale azione di forza spetta al Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale, che opera sotto l’autorità diretta della Guida Suprema, Ali Khamenei. Ma qualunque opzione venga scelta, l’Iran si trova davanti a un dilemma strategico: ogni mossa comporta rischi elevati. La chiusura dello Stretto, ad esempio, rallenterebbe le esportazioni di petrolio proprio verso Cina e Russia, due dei principali partner internazionali di Teheran. Sarebbe un danno economico e anche politico, perché isolerebbe ulteriormente la Repubblica Islamica in un contesto già segnato da sanzioni e tensioni.

I rischi per l’Europa e l’Italia
L’Europa non sarebbe immune. Sebbene l’Asia rappresenti la destinazione finale di oltre l’80% del petrolio e del gas che passa per Hormuz, una parte significativa arriva anche nel Vecchio Continente, in particolare via Qatar, Arabia Saudita ed Emirati. Secondo Eurostat, il 13 % del greggio e il 6 % del gas consumato dall’UE transitano direttamente attraverso Hormuz, mentre complessivamente il Golfo Persico copre il 20‑25 % delle importazioni UE totali. Un’interruzione avrebbe effetti a catena sulle raffinerie europee, già provate dalla crisi energetica seguita alla guerra in Ucraina. La dipendenza da fonti instabili si aggraverebbe, e con essa i rincari su tutta la catena produttiva, dai trasporti all’agroalimentare, con impatti diretti su famiglie e imprese. Esistono alcune vie alternative: la pipeline saudita “East‑West” (fino a 7 Mbpd) e l’oleodotto UAE‑Fujairah (1,8 Mbpd), ma la loro capacità non è sufficiente a compensare una chiusura prolungata.
Il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, in un’intervista a La Verità, ha messo in guardia sui possibili impatti per l’Italia: “Rischiamo un calo del 20% di gas e del 30% di petrolio. Le forniture alternative ci sono, ma pagheremmo prezzi più alti e saremmo esposti a dinamiche speculative”. Il governo studia misure d’emergenza, tra cui disaccoppiare il prezzo del gas da quello dell’elettricità, offrire alle imprese sconti con restituzione dilazionata e autorizzare contratti a termine. Più complessa invece l’ipotesi di coordinamento europeo sui mercati energetici, vista la diversità tra gli Stati membri. Fratin ha anche difeso la scelta di mantenere una quota di carbone come “fondo di emergenza”, paragonandolo a una “riserva aurea”: poco conveniente, ma indispensabile in un frangente geopolitico instabile.
Le opzioni di Teheran
In questo scenario, le opzioni militari che Teheran potrebbe considerare — inclusi attacchi mirati contro basi statunitensi nella regione, sabotaggi infrastrutturali o attentati indiretti attraverso i propri proxy — si intrecciano con la minaccia più potente ma anche più rischiosa: rendere impraticabile lo Stretto. Un gesto simile costituirebbe un’escalation che potrebbe forzare la mano a Washington e trascinare gli Stati Uniti, e forse i loro alleati, in un conflitto più ampio. Sarebbe il punto di non ritorno in un ciclo di ritorsioni reciproche.
Teheran sa che un simile scenario metterebbe alla prova la coesione occidentale e aumenterebbe le pressioni su mercati energetici e finanziari già instabili. Ma sa anche di giocare con una leva formidabile.
Il mondo, intanto, guarda a quei
trenta chilometri di mare tra Bandar Abbas e le coste dell’Oman con crescente inquietudine. In quel corridoio passa molto più di energia: passa l’equilibrio stesso di un ordine mondiale sempre più precario.
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