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Il Lungo Addio – biografia, recensioni, streaming, discografia, foto :: OndaRock

L’avventura discografica del musicista milanese Fabrizio Testa inizia nei primi anni Dieci con alcuni singoli, per poi dividersi in due progetti separati molto differenti tra loro. Il primo, a suo nome, si è evoluto negli anni in territori decisamente sperimentali con la collaborazione di musicisti diversi in ogni Lp. Il secondo, a nome Il Lungo Addio, lo vede come mente creativa di un gruppo formato dal bassista Luca Ciffo (Fuzz Orchestra, The Great Saunites, Traum), dal batterista Paolo Mongardi (Zeus!, Fuzz Orchestra), poi sostituito da Fabrizio Carriero (Nickelodeon) e dal trombettista Sergio Montemagno. Questo quartetto, nell’arco di quindici anni, ha esplorato un forma originalissima e molto personale di cantautorato non tradizionale, ispirato ai luoghi della riviera romagnola. 

fabrizio_testa_02Il nome del progetto è già esemplificativo: pur ispirandosi chiaramente al classico noir di Raymond Chandler, è una sintesi perfetta per descrivere i personaggi immaginati dall’autore, eternamente in bilico tra una vita fatta di gesti ripetitivi e la depressione che incombe, appunto in un addio lunghissimo che è sempre lì davanti i propri pensieri, ma che alla fine non si concretizza mai, se non come vedremo nell’immaginazione. Fabrizio Testa trasforma la riviera in un non-luogo abitato da uomini che vagano – tra noia e disperazione – alla ricerca di una verità che non troveranno mai.
Ancora una volta il soggetto del cantautorato italiano moderno è l’uomo solo (come in Emidio Clementi, Cesare Basile o Giovanni Succi, ad esempio) incapace di trovare un proprio ruolo nella società odierna che misura le capacità di un individuo col suo reddito, che si perde – nel caso della Romagna – in notti solitarie in alberghi decadenti, tra zanzare, camping e amori destinati al fallimento. Se il comune denominatore di tutti gli album firmati Il Lungo Addio è questo universo romagnolo, parente stretto della desolazione dei quadri di Hopper o delle fotografie di Luigi Ghirri, la musica, invece, continua a cambiare album dopo album, mantenendo costantemente un unico filo conduttore.

Il progetto nasce nel 2010 e le registrazioni dei primi tre anni si ritrovano in Disperate abitudini (2013), raccolta che già contiene gran parte della poetica di Testa in una versione ancora semplice e scarnificata da cantautore maledetto. Il primo vero Lp è Pinarella Blues (2015) che utilizza un blues inaridito ai confini del post-punk per raccontare le vite della costiera romagnola. La destrutturata “Arcipelago Zadina” è la traccia più sperimentale, mentre “Pinarella Blues”, col suo andamento blueseggiante e la sua linea di basso può considerarsi emblematica dell’esordio. Elementi post-punk sono presenti in “Agosto” che descrive gran parte dell’universo creato dal gruppo, mentre “L’ultima fotografia” anticipa le storie di uomini soli alla costante ricerca di amori perduti senza motivo. 

fabriziotestaguitar02Fuori stagione (2016) accentua gli aspetti melodici collocandosi vicino alle sonorità indie italiane. La tromba arricchisce le soluzioni sonore e resterà per sempre un elemento indissolubile del progetto di Fabrizio Testa.
La voce filtrata di “Fuori stagione” suona assolutamente indie, mentre la tristezza e l’ironia coesistono nel brano “Una tedesca” (con una melodia di vibrafono) o nei racconti di personaggi bizzarri della riviera (“Il presidente”). La ballata folk “Dentro al blu” preannuncia un’ipotetica fine in un mare che è l’unica alternativa al grigio-nero della società.

Per quanto le idee di Fabrizio Testa siano chiare, ci vuole ancora un po’ per raggiungere una totale messa a fuoco e Tutti nuotammo a stento (2018) che cita Fabrizio De André, è un discreto passo avanti. Il titolo sottolinea la filosofia dell’autore, la costante fatica di vivere e di trovare momenti di autentica felicità nell’edonismo dominante. Si passa da suoni ancora più scarnificati degli esordi (“Il mare d’inverno”) alle piacevoli melodie di “Astrid”, ancora con chitarre asciutte e minimali. La title track è il momento più poetico, una nuova riflessione sulla morte addolcita dalla persistenza della tromba ad arricchire i ritmi di chitarra che dominano praticamente in ogni brano, dalla potenziale hit “Marina di Ravenna” al blues d’epoca “Vu Cumprà” sino alla ballad folk “Fa freddo anche d’estate”. Nello stesso anno trova una delle sue migliori melodie nel singolo “Riviera New Wave”, disincantato duetto con la cantante Linda Carcione.

estate_violenta_1725649187Estate violenta (2020) ha tutto per essere la sintesi perfetta del progetto. Stavolta c’è il tentativo di cambiare, cioè scrivere brani con potenzialità da hit. La scelta è il pop-rock e su sette brani si può affermare che almeno cinque avrebbero avuto la possibilità, in un mercato discografico davvero libero, di essere apprezzati da un pubblico molto vasto. Tendenzialmente un cd-libro, fatto di racconti di uomini persi in non-luoghi senza tempo dove provare a rimettere insieme i cocci del propria esistenza (la camera di un albergo, la tenda di un camping o una pineta deserta in autunno). Un giro di basso e siamo a “Camping”, brano pop in perfetto equilibrio tra tromba e chitarra, con testi disincantati di una vacanza naturalista in cui non si può che prendere atto di un amore ormai finito e la conseguente riflessione sulle illusioni della vita, metafora della illusoria ricerca di felicità nelle vacanze estive tanto agognate.
“Cattolica” è forse il brano perfetto, hit assoluta che esprime il desiderio di fuggire da una stretta realtà provinciale che forse si ripresenterà uguale in qualsiasi altro luogo. Gli accordi di “Hotel Hawaii”, con la voce tratta da un film con Enrico Maria Salerno, fanno da paradigma all’incomunicabilità tra uomo e donna nel momento in cui è chiaro che l’amore è finito, come ogni estate è destinata a lasciare il posto all’autunno. La metafora riuscita dell’amore visto come una partita di tennis, dove nulla è costante e afferrabile, ma tutto è breve e sfuggente, è resa magnificamente nella poetica e nostalgica “Tennis”, che riflette sul fatto che la vera felicità sta nella memoria dell’infanzia. “Ferragosto ok”, tra sentori britpop e melodie anni 60, vive ancora della filosofia di Testa, tra malinconici addii e angoscianti divertimenti estivi obbligatori.
Si chiude con “Windsurf”, il brano più triste e forse più autentico: una breve riflessione sulla morte che sta costantemente al nostro fianco, quasi fosse l’unica nostra compagna fedele. Ma d’altronde morire sul proprio windsurf non sarà di certo la peggiore delle fini possibili. Un album dal potenziale enorme penalizzato – appena un mese dopo della sua pubblicazione – dall’avvento del Covid, che costringe all’annullamento del preventivato tour. 

tropico_romagnolo_2_1664319322Gli anni successivi sono duri e Tropico romagnolo (2022) ne è il frutto amaro, che fa trapelare in pieno questo lungo periodo di stanchezza, solitudine e sogni svaniti nel nulla. L’album suona come un addio alla costiera, al mare, alle zanzare, ai camping e alle stanze d’albergo che avevano così fortemente segnato tutta la discografia precedente. Se il ricordo del passato, dell’infanzia felice o di una storia d’amore perduta sono sempre stati il centro della produzione de Il Lungo Addio, adesso tutto sembra più distante e irriconoscibile, quasi come una spiaggia avvolta nella nebbia. L’album è caratterizzato da una riduzione dei suoni al minimo necessario, ad esempio “Pizza in albergo”, brano costruito sulle percussioni su cui si inseriscono stilettate di tastiere e rumori che inizialmente sembrano quasi una citazione dei Suicide, prima del momento in cui dalle percussioni emerge una melodia ipnotica e infantile accompagnata da synth e infine devastata da rumori industrial che cancellano ogni memoria possibile.
L’idea di un uomo che vaga in una vita di cui non ha compreso lo scopo è pienamente rintracciabile nell’accoppiata “Nel pomeriggio” e “Porto Canale”, cantautorato poetico scarno (voce, tastiera e basso) tra Lucio Battisti e i Death In June, in cui la solitudine e il mare sono l’unica medicina per un male di vivere insopportabile (“Vado al mare così mi passa anche la voglia di morire”).
Tra consuete passeggiate fatte di letture del solito giornale, di una voglia di partire senza sapere dove, di azioni ripetute con abitudine che non danno felicità, di ritorni a casa e successive uscite per comprare le sigarette e la fatica della convivenza con una donna che non si ama più, Fabrizio Testa delimita chiaramente lo scenario in cui si muove questo disco/film sonoro.



il_lungo_addio__adriatico_1725648549Adriatico (2024) è una nuova variazione del progetto, stavolta particolarmente inattesa, che ci catapulta in un mondo sonoro differente, essendo il primo album in cui l’elettronica e i synth prevalgono su tutto, sfornando suoni darkwave su percussioni tribali.
Nonostante tutto appaia diverso, ovviamente non può mancare il comune denominatore che lega tutti gli album del progetto, cioè l’ambientazione romagnola di uomini che vagano in questo piccolo universo desolato, tra Misano, Rimini e Cattolica, alla ricerca di una verità introvabile, di un motivo per non morire, inseguendo “Dio e una minerale”. Stavolta, però, i testi divengono parole lanciate nel vuoto, slogan ripetuti sullo sfondo di percussioni, semplici nomi di hotel su ritmi kraut ossessivi, come flussi di pensiero decostruiti. Non ci troviamo più di fronte a brevi racconti di uomini che si muovono dentro un micromondo, ma siamo al cospetto di scatti fotografici, di istantanee che immortalano un attimo che pare durare in eterno, come in un quadro di Hopper.
“Zimmer” lancia in un mare elettronico dai ritmi kraut nomi di alberghi come fossero stilettate, quasi pensieri casuali in una mente perduta, ricordando gli anni d’oro del synth-pop. “Giugno Luglio Agosto Nero” cita “Luglio, agosto, settembre (nero)” dell’esordio degli Area ed è pura darkwave, dai synth al suono di basso post-punk. La passione per il cinema italiano – che ha sempre contrassegnato Il Lungo Addio – torna nel brano finale, “Dove cadono tutti”, ancora un volta con synth e percussioni, ma stavolta alienanti, con le parole di Monica Vitti tratte da uno dei più grandi capolavori del cinema italiano, “Deserto Rosso” di Michelangelo Antonioni.




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