Death Angel + Municipal Waste, Eur Social Park, Roma
Finalmente si torna all’aperto, armati di birra ghiacciata e unguenti anti-zanzare per trincerarsi contro un caldo già assassino. Tra una canotta degli Slayer e una coloratissima maglietta della Fanta, il sempre variegato pubblico del metal si raduna tra i pini dell’Eur Social Park, nel cuore del Parco del Ninfeo, a pochi minuti dalla fermata della Magliana. La location è suggestiva, una piccola area verde delimitata dalla security, con il palco montato come in cima a una morbida collina, quasi a chiedere permesso alle cime degli alberi.
Parcheggiata l’auto in un viale ombroso, si scende dolcemente a piedi tra i parrocchetti invasori e famigliole che festeggiano i propri pargoli, beffardamente travolti dal muro sonico degli americani Bewitcher, portatori sani di un metal blasfemo e luciferino. Con grande puntualità, il gruppo di Portland, Oregon, sale sul palco alle 19,30 spaccate, dal momento che – e qui le voci corrono incontrollate tra il pubblico in fila per la birra – bisognerà terminare tutto entro le 23. “Lo so, non facciamo noi le regole”, dirà visibilmente dispiaciuto Mark Osegueda, il cantante dei Death Angel, qualche ora dopo.
Accolti da una nutrita schiera di fan, i Bewitcher partono a razzo con il loro ultimo disco, “Spell Shock”, che ha confermato il piacevole mix tra speed e black, con punte più orecchiabili come in “Starfire Maelstrom”. L’estetica musicale della band americana è una pozione stregonesca di blasfemia e rasoiate di ossidiana, come sul groove da cavaliere oscuro di “Electric Phantoms”. Il gruppo maneggia elementi persino più rock’n’roll come in “Satanic Magick Attack”, che avvicina il loro sound a mostri sacri come i Motörhead.
Il set è breve, mezz’ora, per la probabile felicità della famigliola festeggiante in mezzo al parco. Circa venti minuti per il cambio palco, in attesa dell’esibizione dei Municipal Waste da Richmond, Virginia, che nella data romana hanno ceduto lo scettro di headliner ai Death Angel. Rispetto alla data precedente, al Live Club di Trezzo sull’Adda, il gruppo attivo dal 2001 si alterna con i più anziani, alfieri del thrash metal, dimostrando che ancora si può evitare di tirarsela, che il concetto stesso di headliner è molto relativo. Lo stesso pubblico, a giudicare dalle magliette, è infatti diviso in due, tra chi appare sconvolto dalla decisione di suonare per secondi e chi pare perfettamente d’accordo.
L’attitudine “cazzona” dei Municipal Waste è evidente fin dai primi riff, quando il cantante Tony Foresta parla continuamente con il pubblico, celebrando una festa con tanto di divanetti gonfiabili che volano da una parte all’altra. Un’ovazione accoglie il giro roboante di basso che apre il classico “Sadistic Magician”, epitome del crossover thrash nato negli States agli inizi degli Eighties.
In circa cinquanta minuti la scaletta è densa, veloce e furente, quasi venti pezzi suonati a mille all’ora, dalla party-song “Breathe Grease” alla macchina da pogo “Wave Of Death”. Il gruppo sfodera riff di potenza pachidermica in “The Thrashin’ Of The Christ”, fondendo alla perfezione lo speed metal con l’hardcore punk in brani al fulmicotone come “High Speed Steel”. Il pubblico è ormai scatenato, quando parte il rullante impazzito di “The Art Of Partying”, seguita dalla divertentissima “Born To Party”. Il set riconcilia così i metallari con gli antichi fasti, ricordando a tutti di restare così, brutti e selvaggi, ma sempre presi bene.
Dopo un’altra mezz’ora dedicata al cambio palco, tra lunghe code per le spine di chiara nazionale, i Death Angel dalla Bay Area aprono silenziosi con il riff primordiale di “Mistress Of Pain”, primo estratto dal capolavoro “The Ultra-Violence”, disco forse passato ingiustamente sottotraccia perché uscito nello stesso anno di pietre angolari come “Master Of Puppets” e “Reign In Blood”. “Voracious Souls” mostra tutta la perizia tecnica del gruppo californiano, tra continui cambi di tempo e la voce aggressiva ma anche calda di Mark Osegueda.
“I Came For Blood” spinge sulle tipiche tonalità thrash metal in un ritmo vorticoso, mentre “Buried Alive” apre sul ritmo marziale per liberare il canto più pulito e l’assolo vertiginoso della chitarra di Rob Cavestany. “The Dream Calls For Blood” porta in dote un refrain più orecchiabile, seguita a ruota dalla cavalcata “Caster Of Shame” con una grande prestazione del batterista Will Carroll. Osegueda dichiara amore eterno per il pubblico romano, buttando un “fuckin’” e un “motherfucker” circa ogni due parole e mezza. “The Moth” si sviluppa su un groove più oscuro e rappato, prima del nuovo brano “Wrath (Bring Fire)” che torna ai fasti thrash del passato.
Il finale è tutto da vivere, nel medley che parte dall’accoppiata riff e cori “Thrown To The Wolves” all’epica maratona “The Ultra-Violence”, che chiude il set tra il delirio del pubblico. Un set serrato, forse più breve del desiderato, ma le regole sono queste e non si sfugge, forse per dare finalmente respiro alla famigliola, anche se ormai lontana dalla furia devastatrice del thrash a stelle e strisce.