Garbage – Let All That We Imagine Be The Light
L’ottavo album dei Garbage, “Let All That We Imagine Be the Light”, arriva sul proscenio discografico con una patina oscura piuttosto intensa. Già, perché anche se Shirley e soci sanno ancora come creare un alt-rock lucido e decisamente consapevole, l’album in questione gioca sul sicuro dal punto di vista musicale, venendo meno, però, per ciò che concerne tutta quella grinta e tutta quella sperimentazione che un tempo definivano in maniera quasi scientifica l’imprinting sonoro della formazione americana. La title-track, per esempio, inizia subito con dei toni cupi e sebbene il suo messaggio di resilienza sia alquanto incisivo, il brano stesso sembra più una tesi di laurea su quanto realizzato in passato che un pezzo da ascoltare con religiosa attenzione. Se vogliamo, si tratta di un problema ricorrente in tutto il disco: i temi sono seri e importanti, ma la musica raramente li eleva al di là della mera pretesa concettuale.

Detto questo, Shirley Manson resta una presenza magnetica, con la sua vocalità iconica ed espressiva, soprattutto in brani come “Love To Give” e “Get Out My Face AKA Bad Kitty”. Quest’ultima traccia, tra l’altro, rappresenta uno dei momenti più energici e incisivi del disco. Tuttavia, anche in questi frangenti un po’ più esaltanti, l’aria che si respira all’interno del disco continua ad essere dimessa; sì, insomma, tutta la freschezza sonica di alcuni brani viene in qualche modo diluita da arrangiamenti piatti o da una produzione sin troppo pulita. Dal punto di vista musicale, l’album flirta con un’atmosfera lo-fi, ma spesso risulta più sommesso che intimo. In soldoni, “Let All That We Imagine Be the Light” non è certo un lavoraccio, ma risulta privo di quella verve granitica di cui si sono sempre circondati i Nostri. È riflessivo, coeso e chiaramente realizzato con una determinata vision. Ma per una band che un tempo sciorinava imprevedibilità e pathos come se non ci fosse un domani, tutto ciò sembra più un attento esercizio di meditazione che un’esplosione di energia.
“The Day That I Met God” va a concludere in maniera dignitosa, ma banalotta, un disco che esalterà non poco tutti coloro che non riescono ad estendere il proprio sguardo al di là di ciò che gli viene puntualmente propinato nel Vecchio Stivale (che non è propriamente un Paese di visionari musicali). Ad ogni modo, provando a spezzare una lancia a favore del gruppo a stelle e strisce, le sonorità ancestrali di “Let All That We Imagine Be the Light” risultano ancora inconfondibilmente “Garbage” (ed è un bene). Chitarre larghe e infiammate. Strati di synth lussureggianti (per lo più analogici). Mille piccoli dettagli che non si rivelano al primo ascolto, e nemmeno al secondo. Batteria potente e imponente. E, come sempre, la voce di Shirley Manson, che fluttua da qualche parte sopra il caos terrestre. Ecco spiegato, dunque, perché si tratta di un disco che riesce a raggiungere comunque la piena sufficienza. E’ un accontentarsi. Un discreto accontentarsi. Nulla di più.
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