Ceretti: «Mancata l’elaborazione degli anni di piombo, rischiamo sorprese»
La formazione familiare, il delitto Galli
Per lui fu la solidità di una famiglia «profondamente cattolica e radicalmente antifascista» – padre gioielliere della borghesia milanese, madre-pilastro dell’intero nucleo – a trasmettergli la naturale repulsione verso ogni forma di prepotenza, in cui già si scorgeva la degenerazione di certe frange, che attirarono invece molti coetanei. «Poi ci fu il delitto Galli (19 marzo 1980). Quando vedi il tuo professore, Guido Galli, con cui stavo preparando la tesi, un magistrato, ammazzato davanti all’aula universitaria c’è solo aberrazione». Not in my name.
Il Labirinto della gioventù bruciata
La gioventù bruciata di quegli anni Ceretti ha continuato ad ascoltarla per tutta la vita, contribuendo a far uscire le vittime di quella violenza da una lunga condizione di marginalità e loro, i detenuti politici, dalla prigione del proprio labirinto, titolo di uno spettacolo teatrale del 1988: «mi turbò moltissimo. Gli invisibili si autorappresentavano sul palco: Franco Bonisoli, Lauro Azzolini, Enzo Fontana e altri ex della lotta armata». Come in un percorso di maieutica, dopo flash di memoria Ceretti ci affida un’analisi sull’attualità.
Le nuove aggregazioni: se non li vedessimo arrivare?
«Noi non sappiamo cosa stia davvero bollendo in pentola al di là di questa dilagante aggressività. Nei social confluiscono passioni disorganizzate, primitive, legate all’idea che esisti solo se riesci a contrapporti. È il tempo delle tribù, per dirla con Michel Maffesoli, l’era dell’ inaridimento delle istituzioni, della polverizzazione del corpo sociale; l’era delle reti effimere e delle scariche pulsionali. Negli anni Settanta entravi con il corpo nelle assemblee e in certi pensieri, anche inaccettabili. Oggi le aggregazioni avvengono in luoghi dove l’opinione pubblica ha meno capacità di cogliere quanto sta maturando, ci si radicalizza su internet. Potremmo per questo essere sorpresi e non averli visti arrivare». Non sottovalutare, non drammatizzare.
Una strada per tutti i caduti degli anni di piombo?
Tutto è destinato a restare così, se non a riproporsi allora? Non è mai tardi, a detta dell’uomo abituato a riparare i guasti dei reati peggiori, per «un percorso in cui gli eredi di tutti quei movimenti si affidino ad un gruppo di persone terze, da tutti considerati autorevoli e imparziali, per iniziare a far confluire i pensieri attorno a questioni irrisolte». In questa prospettiva la proposta del sindaco di Milano, Beppe Sala, di intitolare una strada a tutti i giovani caduti in quell’era di follie ideologiche e pistole facili potrebbe essere «l’esito di un percorso di ricomposizione, un gesto simbolico importante di arrivo, non il contrario». Come la messa che il cardinale Carlo Maria Martini celebrò per tutte le vittime degli anni di piombo, senza distinzione.
La Commissione per la riconciliazione in Sud Africa
La prima difficoltà «è trovare arbitri riconosciuti da tutti super partes, condizione che sancì il successo della Commissione per la verità e la riconciliazione in Sud Africa» alla fine dell’Apartheid. Esempio fulgido di giustizia riparativa, un percorso di «riconoscimento da parte dell’autore del reato della propria responsabilità – spiega Ceretti – con la disponibilità a riparare con un gesto simbolico. Questo fa uscire la vittima dal suo paradigma cimiteriale, secondo la definizione provocatoria del saggio di Daniele Giglioli (Critica della vittima. Nottetempo). Fuori dall’isolamento del trauma, di nuovo nel mondo. «È il riconoscimento della società dell’altro difficile», chiosa, richiamando un’espressione di Claudia Mazzucato, docente all’Università Cattolica, uno degli «incontri decisivi della mia carriera, insieme a tutto il gruppo di quell’ateneo; e poi quello con Marta Cartabia».
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