Addio all’avvocato sempre a fianco della famiglia Agnelli
Con Franzo Grande Stevens, scomparso all’età di 96 anni, se ne va un pezzo dell’Italia del Novecento: l’Italia laica, risorgimentale, industriale, radicata nel passato ma proiettata nella modernità, seria ma ossessionata dal non annoiarsi. No, lui non è stato semplicemente – come in tanti lo ricordano con un appellativo che i cultori di storia minima torinese fanno risalire allo stesso Gianni Agnelli – «l’avvocato dell’Avvocato», il custode della componente civilistica della vita segreta della prima famiglia del nostro Paese e dei meccanismi societari di un gruppo che oggi non esiste più, ma che è stato – dalla Fiat alla Stampa, dal Corriere della Sera al Sanpaolo – uno Stato nello Stato. Franzo Grande Stevens, semplicemente «Franzo» per i tanti che ne apprezzavano la cordialità e l’educazione insieme partenopea e anglosassone come le origini sue e di tanta parte della borghesia napoletana più illuminata e cosmopolita, è stato un allievo diretto di Alessandro Galante Garrone. Dal punto di vista culturale – nella sua capacità di trasformare la cultura giuridica e politico-filosofica dei libri in sapienza professionale – ha partecipato alla grande stagione italiana che ha costruito un pezzo della nostra identità: dritto dal Risorgimento mazziniano, passando attraverso l’educazione antifascista del liceo Gianbattista Vico (a chi scrive raccontò del professore di storia e filosofia che ogni mattina, aprendo le finestre, declamava ironizzando «cari ragazzi, anche oggi il bel tempo ci è garantito dal Duce, a lui dobbiamo tutto questo»), approdando a un antifascismo sorridente e non moralistico («lei dove ha resistito?” chiedeva, nelle non rare conversazioni con i capi di un PCI e di un sindacato che a Torino erano l’altra faccia della medaglia dura e ferrigna degli Agnelli). Nel Secondo dopoguerra, dopo la laurea in giurisprudenza alla Federico II di Napoli, a Torino allaccia un rapporto vero con il mite giacobino Galante Garrone e poi si getta nella battaglia della vita come avvocato specializzato in questioni di impresa. Prima un passaggio nelle Partecipazioni Statali della Ilte, quella degli elenchi telefonici della allora Sip, dove a Torino giovanissimo e super affascinante faceva innamorare tutte le segretarie, poi l’ingresso appunto nel potere vero, solido e consapevole, gerarchico ma pronto (anche) al riconoscimento delle qualità individuali come quello generato, coagulato e sedimentato dalla famiglia Agnelli dei due fratelli Gianni e Umberto. Con Gianluigi Gabetti ha formato una coppia centrale nella storia conosciuta e sconosciuta del capitalismo e della finanza del nostro Paese e dell’Europa. Se Gabetti – già allievo di Raffaele Mattioli e Adriano Olivetti – curava per la famiglia di Torino soprattutto i rapporti con la grande finanza americana e con gli esponenti del network ebraico europeo, a Grande Stevens spettava lo spettro più ampio possibile, che coltivava anche grazie alla conoscenza di francese, inglese, spagnolo, russo e portoghese. Non c’erano operazione societaria del gruppo o problema personale della sterminata famiglia Agnelli che non vedessero la richiesta del coinvolgimento di Gabetti e appunto Grande Stevens. Le due dimensioni – la morfologia della maggiore realtà industriale italiana e gli interessi dei suoi azionisti – si fondevano nella costruzione delle scatole societarie, concepite e studiate, anche, da Grande Stevens. Per questa ragione il suo studio è stato da ultimo coinvolto – senza mai essere indagato – nella diatriba sanguinante fra gli eredi di Gianni Agnelli – in particolare la figlia Margherita e il nipote John Elkann – per l’eredità dell’Avvocato, di cui lui è stato tecnicamente esecutore testamentario. Anche per questa sua funzionalità essenziale nel mondo degli Agnelli, anni fa venne accusato – insieme appunto a Gabetti – per l’equity-swap di Ifil-Exor, l’operazione al fulmicotone e borderline che, nel 2005, permise agli Agnelli di mantenere il controllo della Fiat. E’ stato un soldato del re che si alzava in piedi quando Gianni Agnelli entrava nella stanza. Ma lo ha sempre fatto con dignità e consapevolezza, ironia e qualità.
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