Straw – Senza uscita, la recensione del film Netflix
Il troppo stroppia, nella vita quanto al cinema. Ne è la riprova Straw – Senza uscita, nuovo film di Tyler Perry e originale Netflix, che ha conquistato presto le prime posizioni nella classifica dei lungometraggi più visti della piattaforma. Un’opera che, di fatto, vuole arrivare ad un largo pubblico, con ogni mezzo possibile. Tanto da non avere timore di scadere in una macchina del pianto sadica e pietistica, che rende impossibile simpatizzare, empatizzare o solamente godere della visione di un film costruito a tavolino per manipolare le emozioni, andando sempre e solo da un’unica parte – per l’appunto, senza uscita. Quella della vita come contenitore di delusioni e disgrazie della protagonista Janiyah, la cui interpretazione di Taraji P. Henson ricalca le intenzioni e l’enfasi incontrollabile e incontrollata della pellicola, che viene e vuole essere definita un drama thriller dai tocchi psicologici, ma è solo la sequela di tragedie che in un solo giorno – un solo singolo giorno! – accadono alla donna sull’orlo di una crisi di nervi.
Straw – Senza uscita, la trama del film
Anche solo riportare la trama di Straw mostra la quantità di inverosimili disavventure che la protagonista deve attraversare in ventiquattro ore. E non in uno di quei racconti in cui l’accumulassi di eccessi e assurdità si accavalla con attenzione e accrescimento per arricchire effettivamente la narrazione, bensì per appiattirla e paradossalmente allontanarla ancora di più, lì proprio dove l’opera vuole costringerti a patteggiare per le sventure e i disastri verso cui va incontro la povera e indifesa Janiyah dal cuore d’oro. Innanzitutto il film parte con la protagonista e sua figlia che si svegliano mentre il vicino di casa pompa talmente tanto la sua musica nelle casse da far tremare i pochi, malconci oggetti del loro appartamento. Si prosegue con la padrona di casa che le urla dietro di volere i suoi due mesi di affitto non pagati, lo stesso vale per la bambina che ha bisogno di soldi per il pranzo – dopo che la maestra l’ha ridicolizzata davanti alla classe – e poi ancora datori di lavoro brutali, clienti del supermarket in cui lavora peggio ancora (uno le butta persino una bottiglia di vetro ai piedi) e un tizio che prima le sperona la macchina, poi si scopre essere un poliziotto che minaccia di spararle un colpo in testa. E non abbiamo nemmeno citato la sparatoria in cui si trova invischiata e la bomba che una direttrice di banca crede abbia nel suo zaino.
Vorremmo poter dire che l’accavallarsi delle sofferenze di Janiyah finiscano qui, ma è meglio fermarsi altrimenti questo articolo non si concluderebbe più – che è in fondo la stessa sfiancante sensazione che lascia il film. E che è esattamente ciò che fa invece Tyler Perry, anche sceneggiatore e produttore: un affastellarsi di sciagure che diventano talmente tante da fare il giro e risultare irreali. Non il trampolino di connessione per entrare in sintonia con gli altri – cosa che, in maniera pigra, avverrà nel film solo quando la protagonista farà un esasperante monologo mentre viene ripresa segretamente e ascoltata da tutta la città (tutta la città!) tramite una diretta internet. Un ammucchiare che è controproducente rispetto ai propositi posti da Perry, che vogliono mostrare cosa può scattare in una persona arrivata al proprio limite. Qualcuno che non si sente visto, capito, compreso, trattato indifferentemente male da tutti – benché la componente di genere e di etnia sia predominante nei discorsi che il film vuole portare avanti – e che bisogna giustificare (a suo modo di vedere e, alla fine, anche degli abitanti dell’opera stessa).
Un film che usa le sfortune per conquistare (subdolamente) il pubblico
Una visione che avvicina quasi Straw al Joker di Todd Phillips, un paragone che può sembrare irrazionale, ma che riprende il concetto del vivere “in una società” che ci snobba e finisce per renderci insieme vittime e carnefici – e con cui è ovvio che alla fine la gente tende a fraternizzare. E che fa sentire anche in colpa se si finisce per vederla diversamente. Che punta il dito tanto verso tutte le persone che Janiyah ha incontrato nel corso della sua giornata, quanto verso il pubblico che, invece di compatirla perché riconosce degli estremismi nel film, può venir tacciato di mancanza di empatia. Visto inoltre il successo che Straw sta ricevendo tra molti degli spettatori di Netflix, ma proprio perché la pellicola sa essere subdola e furba nello strumentalizzare le sfortune della protagonista.
Una pessima Taraji P. Henson a cui è ovvio che l’unica direttiva che sembra esserle stata data è di dimostrarsi il quanto più distrutta e sfasata possibile. Come in trance in alcune parti del film – in particolare nella “finta” rapina che occupa gran parte della storia – resa fastidiosamente strappalacrime, con tanto di momento con urlo e braccia al cielo sotto una pioggia scrosciante. Un film che avrebbe richiesto più rispetto per la sua protagonista, per la madre che vuole raccontare e le avversità che tantissime donne come Janiyah devono davvero affrontare ogni giorno della propria esistenza. Perché va bene dire: io ti vedo. Ma bisogna anche saper vedere bene, non solo per il gusto di spettacolarizzare (e monetizzare) il dolore.
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