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Giuliana Sgrena ricorda il rapimento e la morte di Calipari: “Mi salvò la vita, non me lo sono mai perdonato” | isNews

A Campobasso per un evento organizzato dall’Assostampa Molise la giornalista, sequestrata a Baghdad nel 2005, ha raccontato quel mese terribile in Iraq. Concluso nel modo più drammatico, con gli spari degli americani mentre la stavano liberando


CAMPOBASSO. “Se una giornalista torna in una bara da un paese in guerra, sicuramente sarà stata uccisa perché aveva fatto uno scoop, se invece dopo essere stata rapita torna a casa viva, beh, allora se l’era andata a cercare”.

In queste parole della giornalista Giuliana Sgrena, per trent’anni inviata di guerra, ospite oggi a Campobasso, nella Sala della Costituzione, di un evento organizzato dall’Assostampa Molise per il ventesimo anniversario della sua fondazione, il titolo del suo libro ‘Me la sono andata a cercare – diari di una reporter di guerra’ e il senso del dramma vissuto.

Un dramma iniziato il 4 febbraio 2005 quando fu rapita da un gruppo islamista a Baghdad, in Iraq, dove si trovava per realizzare una serie di reportage per ‘Il Manifesto’. La prigionia in una villetta a schiera alla periferia della città, “giornate trascorse a letto perché faceva freddo” e gli appelli per la liberazione che i suoi sequestratori le costrinsero a fare. Il 4 marzo, dopo un mese di prigionia, dopo una complessa trattativa, la liberazione ad opera dei servizi segreti italiani. Quello che doveva essere il momento della gioia che diventa il momento dell’orrore, per l’uccisione ad opera di soldati statunitensi del dirigente del Sismi Nicola Calipari, che la salvò facendole scudo con il suo corpo.

Momenti drammatici raccontati nel ricordo che Giuliana Sgrena ha fatto nel dialogo con i giornalisti Michaela Marcaccio e Giovanni Di Tota e con il presidente dell’Asm Molise Giuseppe Di Pietro. “Volevamo riflettere su cos’è il giornalismo oggi, su cosa significhi farlo nelle zone di guerra e quali rischi comporti – ha detto in proposito Di Pietro – Ma anche su dove stia andando l’informazione, in un’epoca in cui è sotto attacco: da internet, dalla crisi economica, dal disinteresse della gente. In autunno avremo appuntamenti dedicati ai giornalisti minacciati dalle mafie”.

“Durante la fase del mio rapimento tante volte ho avuto paura di morire – ha raccontato la Sgrena – ancor di più perché io avevo detto ai miei sequestratori, due uomini e una donna, di non parlare arabo, mentre in realtà avevo studiato arabo classico, come rivelò in un’intervista il direttore del mio giornale. A questo punto mi accusarono di essere una spia.”

Ricordando Nicola Calipari non frena l’emozione. “Quando sono stata liberata, avevo ancora il cotone sugli occhi, sono salita su una macchina. Davanti c’era l’autista, dietro salì con me Calipari, che mi disse “ora sei libera”. Solo quando l’autista disse “siamo a 900 metri dall’aeroporto” realizzai che ero davvero libera e che sarei tornata a casa. A quel punto però la macchina fu investita da una serie di colpi di proiettile, sentivo una mitragliatrice che sparava e capii che erano gli americani. Prima di lasciarmi libera i miei rapitori mi avevano detto che avevano promesso alla mia famiglia di rimandarmi sana e salva in Italia, ma che gli americani non volevano che io tornassi viva e tutto questo mi tornò in mente. Nicola mi buttò tra i due sedili e si mise con il suo corpo sopra il mio, ma a un certo punto non lo sentiti più parlare e lo sentii sempre più pesante su di me. Così capii che era morto. Non sono mai riuscita a superarlo, né a essere felice per la mia liberazione, perché la mia libertà è coincisa con la morte di questa persona”.

Di quella esperienza, oltre a questo dramma, Giuliana Sgrena porta anche una testimonianza, il foro del proiettile che le trapassò la spalla “che io in quel momento non ho sentito” e delle altre ferite riportate durante la sparatoria. “Sono tornata a Baghad altre due volte – ha quindi concluso il suo racconto – la seconda volta sono anche andata sulla via dell’aeroporto dove c’era stata la sparatoria, ma qui mi è calata un’enorme cappa nera davanti agli occhi. Non vedevo nulla, forse era un meccanismo di protezione”.

Rosa Calipari, ha concluso Giuliana Sgrena, l’ha aiutata a combattere il senso di colpa per la morte del marito. “Mi ha detto “era il suo mestiere, sarebbe stato distrutto se lui fosse arrivato vivo e tu morta”. Ma il suo gesto non potrò mai dimenticarlo”.

Come l’accusa di “essersela andata a cercare”, che in tanti le hanno rivolto “perché una donna non avrebbe dovuto essere lì. Da qui il suo libro, la rivendicazione, con orgoglio, di una vita spesa – da donna – in prima linea. Con un’esperienza che però l’ha segnata per sempre.

Carmen Sepede


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