Economia

Via alla partecipazione dei lavoratori alla vita delle aziende. “Passo avanti, non una rivoluzione”


MILANO – Il 10 giugno entra in vigore la legge sulla partecipazione dei lavoratori nelle aziende, approvata definitivamente dal Parlamento a metà maggio e quindi pubblicata sulla Gazzetta ufficiale. Testo lanciato dalla Cisl, senza trovare un fronte comune con Cgil e Uil, declina la partecipazione dei lavoratori alla vita delle aziende in quattro forme: Gestionale; Economico/Finanziaria; Organizzativa; Consultiva.

Con l’aiuto di Livio Bossotto, partner di A&O Shearman, vediamo cosa significa in concreto.

Quali sono le quattro forme di partecipazione?

La partecipazione gestionale prevede la presenza diretta di rappresentanti dei lavoratori negli organi societari (consiglio di sorveglianza o consiglio di amministrazione a seconda della struttura societaria) – spiega Bossotto – Quella economico/finanziaria riguarda la possibilità di distribuzione degli utili e l’azionariato diffuso. La partecipazione organizzativa si realizza tramite l’istituzione di commissioni paritetiche per promuovere l’innovazione in ambito produttivo e organizzativo. Quella consultiva consente ai lavoratori di esprimere pareri sulle decisioni aziendali tramite consultazioni formali. Tutto quanto appena descritto resta comunque attuabile su base volontaria: nessun obbligo per le imprese di implementare forme di partecipazione.

La legge attua l’articolo 46 della Costituzione. Come mai è arrivata dopo 80 anni?

L’attuazione dell’art. 46 della Costituzione, che riconosce il diritto dei lavoratori a partecipare all’impresa come elemento caratterizzante del modello economico e sociale, ha richiesto quasi 80 anni a causa di profonde resistenze culturali e storiche. Il modello italiano di relazioni industriali è stato tradizionalmente conflittuale, più orientato alla contrapposizione che alla collaborazione. Solo ora, con una spinta dal basso e un contesto europeo favorevole, si è arrivati ad una legge organica seppur molto soft sul tema. Sicuramente il ritardo pesa: la partecipazione in Italia arriva quando altrove è già storia.

Sul punto della partecipazione gestionale, è venuto meno (rispetto alla legge di iniziativa popolare) l’obbligo di introdurla per le partecipate pubbliche e l’agevolazione fiscale alle società che la prevedessero. Quanto risulta “monca” la previsione, senza questi obblighi/incentivi?

L’assenza di obblighi e di incentivi significativi rende la norma meno incisiva: la partecipazione gestionale resta una facoltà, non un diritto esigibile. Senza obblighi né incentivi, rischia quindi di restare sulla carta. Le imprese pubbliche, che avrebbero potuto fare da apripista, sono state esentate.

Come crede che reagiranno le imprese private?

Probabilmente rimarranno a guardare cosa fanno i più grandi player industriali per valutare costi e benefici dei modelli partecipativi, senza correre rischi.

Per quel che riguarda la partecipazioni, si parla di un “depotenziamento” in itinere con una mera elevazione del limite tassato favorevolmente (da 3 a 5mila euro, per il solo 2025) con aliquota ridotta dal 10 al 5% per un triennio. Qual è effettivamente la portata?

Più che una rivoluzione, la partecipazione economica prevista dalla legge si basa su un fragile equilibrio temporaneo: il tetto sale, l’aliquota scende, ma solo per un anno. E solo se almeno il 10% degli utili va ai lavoratori, soglia tutt’altro che scontata. Si aggiunga che tali forme di partecipazioni agli utili devono essere disciplinate all’interno di contratti collettivi aziendali, soggetti al gioco delle parti della negoziazione sindacale. Senza importanti incentivi strutturali, anche l’opportunità (seppur limitata) del regime fiscale agevolato per la distribuzione degli utili rischia di rimanere lettera morta.

Ache in altri punti si parla di semplici richiami al codice civile…

L’articolo 6 si limita a riportare strumenti di partecipazione dei lavoratori al capitale della società già contemplate all’interno del Codice Civile e ad aggiungere che le azioni possano essere assegnate anche in luogo di premi di risultato. Per le sole azioni attribuite in sostituzione di premi di risultato, la legge introduce un’esenzione fiscale del 50% sui dividendi fino a 1.500 euro annui. È una misura positiva ma di portata limitata, sia per l’importo che per la durata annuale. Anche in questo caso, alla luce del modesto beneficio fiscale introdotto, non si ravvisa una grande novità rispetto al quadro normativo precedente.

La legge fa molto affidamento alla “volontarietà” delle iniziative. La contrattazione collettiva è il luogo dove inserire queste previsioni?

La contrattazione collettiva riveste senza dubbio un ruolo importante, ma per l’effettiva realizzazione delle misure partecipative di natura gestionale risultano ancora più determinanti gli statuti societari. La normativa, infatti, stabilisce che la partecipazione gestionale possa essere prevista dagli statuti, a condizione che sia disciplinata dai contratti collettivi. Si tratta di un doppio passaggio che non passa inosservato: subordinare la partecipazione gestionale all’inserimento volontario negli statuti societari, piuttosto che renderla obbligatoria qualora prevista dalla contrattazione collettiva, rischia di indebolire ulteriormente le possibilità di una reale implementazione di tali strumenti. Al contrario, la contrattazione collettiva rimane centrale per altre forme di partecipazione, come quella economica e organizzativa, i cui dettagli devono essere definiti a livello aziendale.

Che ruolo avranno questi strumenti nella definizione dei rapporti nelle aziende?

Mi aspetto che molte aziende staranno a guardare finché non vedranno vantaggi concreti o non saranno soggette a pressioni sindacali forti o a indicazioni che possono provenire anche dalle associazioni di categoria. Nelle aziende caratterizzate da un dialogo positivo con i sindacati, la legge può rafforzare la collaborazione e portare alla realizzazione di forme di partecipazione. Altrove, rischia di essere ignorata. Senza obblighi e con incentivi a tempo, la partecipazione rischia di restare un’opportunità per pochi pionieri.

Qual è il giudizio complessivo?

Un passo avanti, ma piccolo e incerto. La legge rompe un tabù, ma lo fa con i guanti: niente obblighi, pochi incentivi, tutto affidato alla buona volontà delle imprese. Si tratta certamente di un segnale culturale (in linea con quanto accade da anni in altri paesi europei ed ancor più nella realtà americana ed anglosassone), ma non una rivoluzione concreta e attuabile. Se le parti sociali non si impegneranno congiuntamente nella sperimentazione di nuovi modelli di collaborazione, resterà un’occasione mancata che lascia aperta la possibilità di miglioramenti ed estensioni in futuro.


Source link

articoli Correlati

Back to top button
Translate »