Cultura

Primavera Sound – Giorno 3 @ Parc del Fòrum (Barcellona, 07/06/2025)

Credit: Juan Bendana, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

Dopo il trionfo delle prime due giornate di festival, eccoci al tanto atteso finale di quest’anno, che ha ospitato spettatori da ben 126 paesi – al primo posto il Regno Unito, secondi gli Stati Uniti, terza l’Italia. E direi che i primi due si sono sentiti parecchio, ma ne scriviamo meglio più avanti. 

Tra gli artisti presenti ad aprire questa serata spicca da subito la voce angelica di Xenia, immersa in quella poetica oscurità che è la sua musica – seguiranno approfondimenti, dato che abbiamo avuto il piacere di farci una chiacchierata – e i Kokoshca, a cui ormai il pubblico spagnolo si è affezionato (non a caso sono al loro OTTAVO Primavera Sound).

A pensarci bene, si potrebbe dire che se la seconda giornata del festival l’abbiamo descritta come dolce, l’aggettivo che meglio descrive questa conclusione è “ipnotico”: sì, perché i Glass Beams riescono a invischiarci in un attimo, non deludendo affatto le aspettative: se possibile, la loro musica dal vivo risulta ancora più magnetica rispetto alle versioni in studio. 

Tappa fissa ormai quei cuoricini che sono i Black Country New Road, che hanno portato in tavola il nuovo apprezzatissimo disco “Forever Howlong” – altro disco decisamente amato dal pubblico è “Romance” dei Fontaines D.C., che tra un richiamo alla situazione in Palestina e l’altro hanno messo su uno spettacolo niente male. Audio un po’ basso purtroppo, ma hanno compensato con un’energia così grande e un’esecuzione dei brani così soddisfacente che tutto sommato glielo perdoniamo. 

Non ha assolutamente nulla da farsi perdonare invece Chappell Roan, il cui concerto è stato fenomenale da ogni punto di vista. Impeccabile. Quasi mancano le parole per descriverlo. Una performance ricca e completa in cui il pubblico è stato coinvolto anima e corpo, un’atmosfera leggera e divertente (ma che ha palesemente comportato una mole non indifferente di lavoro) a cui ha contribuito anche la band della popstar. Meravigliosa anche la cover di “Barracuda” dei Heart, che ci fa scongiurare con tutto il cuore di sentire Chappell in un album rock – dopo il singolo country (che fa la sua bella figura anche live), chissà cosa dobbiamo aspettarci.

Che gioiello che sono stati poi Anohni and the Johnsons? Un’emozione unica vedere Anohni poter essere se stessa in tutto e per tutto, liberamente. Brividi durante “You Are My Sister”, pianti per la cover di “Sometimes I Feel Like a Motherless Child”. Un momento tutto sommato intimo, che ricorda anche quanto il festival sia inclusivo, avendo dato voce ad artisti queer provenienti da tutto il mondo, liberi di potersi esprimere attraverso le proprie performance – dopotutto, cos’è la musica se non un caleidoscopio dell’essere?

La tripletta Cap’n Jazz, Machine Girl e Chat Pile è stata micidiale, nel miglior senso possibile; tanta energia, tante botte, tanta soddisfazione. C’è chi giustamente si chiede che fine farà questa fetta di sano hardcore vista la progressiva coachellizzazione del Primavera– che porta sempre più americani e inglesi nel pubblico, con grande amarezza della sottoscritta. E non di quelli simpatici, ma quelli che si accampano per uno specifico artista (a scapito degli altri) e ignorano ogni base possibile dell’etichetta da concerti.

Gente che spinge senza scusarsi, schiamazza durante i set a cui non è particolarmente interessata – di lì, la fatidica questione: a che pro spendere l’ira del Signore e accamparsi aggressivamente ignorando gran parte di una line up così ricca e interessante che pochi festival possono vantare di avere? Mini riflessione a parte, c’è comunque da considerare che purtroppo o per fortuna questa è la stragrande maggioranza del pubblico, leggasi anche come quelli che portano più soldi (il festival è andato tranquillamente sold out mesi fa, per dire). Ben più di 200.000 presenze confermate in così poco è un gran bel numero che pochi possono vantare, quindi che fare? 

Per quanto certi atteggiamenti possano dare fastidio, il più grande consiglio che mi sentirei di riservare è farlo notare – troppo semplice? Ho troppa fiducia nell’umanità? Può essere. Sta di fatto che più si inizia a mettere dei paletti e dire (con educazione, o anche solo con uno sguardo bello truce) a chi dà fastidio che dovrebbe smetterla perché sta rovinando l’esperienza, più c’è la possibilità che chi dà solitamente fastidio inizi a darsi una calmata. O magari no, ma la speranza è sempre l’ultima a morire. 

Improbabile che invece il festival abbracci totalmente la deriva pop, anche se è quella che effettivamente porta più facilmente denaro: nonostante la presenza delle superchicche di quest’anno, non sono mancati i gruppi emergenti, quelle chicche che si scoprono per caso o quegli artisti che potrai vedere solo una volta nella vita al Primavera perché è altamente improbabile che abbiano il budget per fare una data nella tua città. Il cuore pulsante del festival insomma, quello che riesce a dargli millemila personalità e difficilmente delude. Finchè questo cuore batte furioso, possiamo stare tranquilli. Soprattutto se ci sono nomi importanti come gli LCD Soundsystem – incredibili ieri sera, tra l’altro -, Confidence Man o i Turnstile, capaci di far saltare alle 4 di mattina persino i più stanchi e stremati dal festival. Stanchi sì, stremati eccome, ma soprattutto vivi. E il Primavera, in fondo, è anche questo. Molto, molto difficile che questo lato venga a mancare del tutto.


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