Guglielmo Scilla: «Ho fatto coming out perché c’era una strana morbosità sulla mia sessualità. A 20 anni ho capito l’importanza dei rapporti protetti, e cerco di farlo capire a tutti»
L’appuntamento con Guglielmo Scilla è su Whatsapp: visto che è stato sottoposto da poco a un intervento alle corde vocali e che non potrà parlare per diversi giorni, abbiamo deciso di procedere con l’intervista per iscritto in presa diretta, assecondando gli stimoli derivati dalla conversazione. «Non mi aspettavo che le cose fossero più complicate del previsto. Durante l’intervento hanno trovato della roba e adesso aspettiamo l’esame istologico, ma non ho tempo per piangermi addosso. Preferisco lavarmi con una doccia che con le lacrime», mi scrive Guglielmo, che il 17 e il 18 maggio al Teatro Repower di Milano porterà sulla scena Cliché, lo spettacolo di Italy Bares che ogni anno ha la finalità di informare e sensibilizzare il pubblico sulle tematiche di HIV e AIDS abbattendo qualsiasi forma di stigma e pregiudizio. Lo spettacolo del 2025, scritto appunto da Gugliemo Scilla e i cui proventi saranno a favore dell’Associazione Anlaids Lombardia ETS, affronterà il delicato tema della transizione di genere, e porterà sul palco 150 tra i migliori performer di musical italiani insieme ad alcune guest come Katia Follesa, Angelo Pisani, la loro figlia Agata, la prima ballerina del Teatro alla Scala Virna Toppi e Paolo Camilli, tutti a titolo volontario.
Come mai si è sottoposto a un’operazione alle corde vocali?
«Lavoro con la voce da tanto tempo e, quando studi, ti rendi conto dopo un po’ di tante piccole cose. A volte alcuni passaggi ti vengono meglio, altre volte no. Ho sempre avuto, ma soprattutto nell’ultimo periodo, la sensazione che, anche se la mia tecnica migliorava, comunque facevo cagare in alcune cose. Le dico solo che, quando sono andato dal foniatra alla ricerca di un alibi per la mia incompetenza, mi ha detto che fin troppo facevo con quello che mi trovavo in gola. Quindi almeno non ero matto. Ma pensavamo fosse un polipo. Mentre, insieme al polipo, hanno trovato questa roba con un nome strano sia sopra che sotto. Mortacci sua».
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Capita spesso che si senta «incompetente»?
«Non saprei. Sono però molto critico con me stesso, quindi mi focalizzo più su quello che devo imparare anziché che su quello che so fare. Ma lo faccio evitando la frustrazione. Anzi, lo trovo molto stimolante come processo».
Lavora tanto con la voce e, fin dall’inizio della sua carriera, anche con la faccia. Scrivere uno spettacolo teatrale la lascia, però, nell’ombra. Com’è lavorare senza un riflettore puntato addosso?
«Stupendo. Ogni volta che mi viene data la possibilità di creare qualcosa che richiede tempo (e non per forza protagonismo attivo) per me è sempre stimolante. La velocità è sicuramente qualcosa a cui viene dato molto valore oggi. Il teatro, l’editoria e il cinema, invece, sono realtà all’interno delle quali si possono covare le idee. Ci si può concedere il privilegio dell’attesa. Il tempo è un valore. E tutto ciò che a volte è troppo veloce rischia anche di essere visto in maniera strana, senza contare che io non sono molto legato al dover essere un volto, anzi…».
Cioè?
«Mi piace scrivere, mi piace l’intimità che si crea col computer (e, nel caso di questo spettacolo, con la mia meravigliosa partner di scrittura Elisabetta Tulli). E non ho bisogno di dover avere lo spotlight addosso. In questi anni di Italy Bares sentire in sala le persone emozionarsi mi rendeva molto orgoglioso. Anche se non stavo io sul palco. Da attore potrei interpretare solo un certo numero di storie, ma da scrittore ne posso creare molte di più».
Guglielmo ScillaAlberto Terenghi / ipa-agency.net
In Cliché avete scelto di affrontare il tema della transizione: come si è preparato per parlarne nella maniera giusta?
«È stata tosta, non lo nego. L’idea di inserire questo argomento è stata del nostro direttore artistico Giorgio Camandona: per trattare questo tema ovviamente abbiamo fatto uno studio importante. Sono state preziosissime le testimonianze di chi vive queste esperienze in prima persona, e anche fondamentali i pareri di realtà maestre come Fondazione Diversity. All’inizio il mood dello spettacolo era leggermente più comico: volevo lavorare sui cliché trattandoli in maniera divertente. Dopo l’intuizione di Giorgio e grazie a Elisabetta ci siamo, però, resi conto che la storia doveva prendere una direzione meno leggera, perché certi temi non si possono trattare con pressappochismo».
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C’è qualche cliché sulla transizione di genere che Guglielmo Scilla ha smontato grazie alla scrittura di questo spettacolo?
«Ho la fortuna di averne smontati un bel po’ ormai da anni grazie alle persone che mi sono vicine e che vivo quotidianamente. Ho capito che la transizionalità è qualcosa di estremamente personale: sicuramente esiste un’esperienza collettiva tra le persone trans, ma quando poi ascolto le esperienze di questa collettività mi rendo conto che sono sempre diverse come diverse sono le esperienze di noi persone cis. Non si può racchiudere un argomento così vasto in qualcosa di monocolore. Per cui, quando leggo queste generalizzazioni o quando la gente mi spiega cosa voglia dire essere questo o quello, come si debba vivere se sei maschio o se sei femmina, ormai mi chiedo sempre: “ma secondo chi?”. Per cui noi raccontiamo la storia di una persona trans, ma non vogliamo raccontare la storia di tutte le persone trans. Questo vuole essere un invito a scoprire le miriadi di storie che nessuno ha ancora raccontato».
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