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Lorenza, mamma di Letizia, con la Sindrome di Rett: «Mia figlia, bambina per sempre, mi ha insegnato ad accorgermi della gioia che nonostante tutto c’è nella nostra vita»

«Avevo avuto un parto normale e fino a quel momento, Letizia sembrava una bambina normale. Eppure c’era qualcosa. A un anno e mezzo, poi, sembrava che lo sviluppo si fosse interrotto: rispetto alle sue coetanee era molto impacciata nei movimenti, non parlava, le mancava la manualità fine». Fa un salto indietro nel tempo, mamma Lorenza, consapevole che già allora, pur non avendone certezza, qualcosa in sua figlia non andava. Una mamma lo sa, lo sa sempre.

Letizia oggi ha 13 anni, va in seconda media, ha il corpo di una pre-adolescente. Ma non le capacità motorie né cognitive: «Mia figlia ha la sindrome di Rett, una malattia neurologica che colpisce prevalentemente le femmine, rappresentando una delle più comuni cause di grave disabilità intellettuale femminile. Non so se si può dire, ma è una vera “bastardata”». C’è della rabbia nella voce di Lorenza, che ancora non riesce ad accettare che sua figlia stia diventando una donna, ma dentro resterà sempre una bambina piccolissima.

«Mia figlia non è autonoma sotto nessun punto di vista, nei ragionamenti, ma nemmeno nei comportamenti: in bagno deve essere accompagnata, ai semplici bisogni primari dobbiamo sempre rispondere noi, grattandole la testa, soffiandole il naso. Ha proprio la purezza di una bambina di due anni: se sei triste, ti abbraccia; se qualcosa le dà gioia, urla; se qualcos’altro la fa arrabbiare, lo manifesta coi capricci. È ostaggio del suo corpo, cui non può rispondere come dovrebbe».

Lorenza, mi racconti la vostra storia dall’inizio.
«Sono stata io ad accorgermi che mia figlia, nel momento in cui avrebbe dovuto cominciare a parlare o a sviluppare la manualità fine, stava rimanendo indietro rispetto alle altre bambine. Intorno ai suoi 18 mesi ci siamo trasferiti in Canada, per via del lavoro di mio marito Alessandro. L’avevo iscritta alla Scuola dell’Infanzia e lì le maestre mi diedero una conferma di quanto sentivo: “Sua figlia è molto smart, ma sembra una vecchietta nei movimenti”. I primi specialisti che l’hanno vista, avevano ipotizzato la disprassia (disturbo che rende difficile coordinare i movimenti necessari per eseguire azioni volontarie ndr), ma nessuno aveva sospettato potesse trattarsi di una malattia genetica rara. La situazione è degenerata quando, una volta tornati in Italia, sono stata ricoverata per partorire la mia secondogenita, Anna».

Quanti anni aveva Letizia ai tempi?
«Ne aveva 4. Durante la gravidanza, fui ricoverata un mese per controlli. In quel lasso di tempo, i nonni, che se ne occupavano, ravvisarono in Letizia una regressione palese, tipica della Sindrome di Rett e non legata alla mia lontananza: il suo respiro si era fatto affannoso, aveva iniziato ad avere la stereotipia delle mani che battono, andava spesso in preda all’ansia. Solitamente la sua sindrome si manifesta verso i 2 anni, nel caso di Letizia la comparsa così tardiva, intorno ai 3 anni e mezzo, l’ha preservata dalla perdita anche dell’uso delle gambe».

Come fu il suo rientro a casa?
«Non la riconoscevo più. Dicevo: “Ma dov’è finita la mia bambina?”. Lei, che era sempre riuscita a scendere dal letto da sola, ora si bloccava sul bordo, incapace di farlo. Il parto della mia secondogenita coincise con una settimana di check up completo di Letizia al Besta. La diagnosi arrivò certa: Sindrome di Rett. “Signora, non cerchi su Google i sintomi, mi raccomando”. E invece, il viaggio da Milano a Lodi per tornare a casa fu il più lungo della mia vita: andai a leggere in cosa consisteva quella Sindrome, ero terrorizzata».

Ha detto che sua figlia però, non manifesta alcuni sintomi molto gravi legati alla Sindrome…
«Siamo fortunati, è vero, perché Letizia non presenta per esempio l’epilessia, i problemi di assimilazione del cibo e le apnee. Lei può muoversi, ha le sue gambe funzionanti: non appena ne ha occasione va nel giardino di casa per stare all’aperto e muoversi. Purtroppo, il suo sviluppo cognitivo non è andato avanti, sebbene abbia 13 anni, sembra una bambina di 3 anni che non sa parlare. Per far capire le sue necessità a casa e a scuola usa la Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA ). Non è in grado di fare nulla con le sue mani e questo la limita molto. Non ha alcun senso del pericolo, se trova la porta di casa aperta lei esce, proprio come un bambino piccolo».


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