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Mika: «Mi hanno cacciato da scuola, per sette mesi non ho parlato, ero dislessico, non sapevo leggere, non sapevo scrivere. Così ho cominciato a cantare»

A otto anni, mentre molti suoi coetanei si perdevano nei compiti di scuola e nei pomeriggi al parco, Mika cantava in una scenografia firmata David Hockney, a Covent Garden, Londra. Non per ambizione precoce, ma per necessità vitale. «Mi hanno cacciato da scuola, per sette mesi non ho parlato, ero dislessico, non sapevo leggere, non sapevo scrivere. Così ho cominciato a cantare… e mi sono ritrovato in queste scatole magiche dove il mondo diventava un’altra cosa». Lì trovava rifugio e senso.

«Poi sono tornato a scuola, però sapevo che avevo un’altra vita, avevo altre vite. E andavo anche tanto al parco, ero ossessionato con il parco e con le anatre; giocavo con le anatre. Tutte queste diverse vite mi hanno permesso di mantenere la mia fantasia e la mia immaginazione integre: erano credibili perché io lavoravo già con adulti che creavano mondi paralleli pieni di fantasia, intessuti di diversi colori, forme, rumori, musiche. E quello era un lavoro. La musica mi ha salvato la vita», dice oggi in un’intervista al Corriere.

È con questo suo bagaglio che Mika condurrà la serata dei David di Donatello, il 7 maggio su Rai 1, accanto a Elena Sofia Ricci. Ma tiene a precisare che non sarà «la solita ospitata del cantante che viene per fare promozione, sarà uno show poetico, elegante, curato. Nell’anno della 70ª edizione vogliamo celebrare tutti, non solo le star, ma anche gli artigiani che rendono possibile questa magia».

D’altronde, lui l’artigianato lo considera una forma di resistenza. «So che nel mio lavoro c’è una parte commerciale, ma è la parte artigianale, artistica, quella che preferisco. Ed è la parte che mi regala la stabilità mentale: l’artigianato è una cura per gli aspetti più superficiali, ti preserva dallo sguardo degli altri».

Non è un divo, dice. O forse sì, dipende. «Nella vita di tutti i giorni sono “normale”. Quando salgo sul palcoscenico invece mi trasformo totalmente, come se fosse un rito spirituale. E in effetti lo è. C’è un contrasto molto forte fra la mia vita, la mia anima e la mia energia quando sono sul palco, davanti a 50 mila persone, e quando scendo dal palco. Solo, davanti al pianoforte o alla scrivania, mi sento una merda: sarò capace di creare qualcosa di nuovo?».

Il suo legame con l’Italia è passato prima dai film, poi dalla lingua, poi dai cantautori. «Non parlavo italiano e ho potuto capire profondamente certi artisti come Tenco, De André o Battiato solo imparando la lingua. Ma non avevo bisogno di parlarlo per capire il vostro cinema: questa è la prova di un dialogo universale».

Ed è proprio il cinema che lo riporta oggi in Italia. «Sono un grande fan del potere del cinema, che sa essere leggero, poetico, politico, che sa dialogare con il mondo. E sotto questo aspetto l’Italia è eccezionale. Dal dopoguerra in poi questa capacità è stata incredibile. Scorsese ha raccontato benissimo l’impatto che il cinema italiano ha avuto sul resto del mondo».

Figlio di madre libanese e padre americano, cresciuto tra Parigi e Londra, Mika è un cittadino del mondo in senso autentico. «Dagli Stati Uniti ho preso la parte pratica, che non ha paura di parlare di budget o sporcarsi le mani. Dall’Inghilterra la disciplina, l’educazione che ti fa sentire sempre ignorante e ti spinge a leggere, ad ascoltare, a scrivere. Dalla Francia il gioco delle parole, l’arte del dibattito. Dal Libano il colore, l’emozione, una dolce follia un po’ malinconica».


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