Società

Il cardinale Zuppi: «Cambiamo il mondo»

Ripubblichiamo questa intervista al cardinale Matteo Zuppi pubblicato nel 2022 e che i nostri lettori hanno molto apprezzato

Matteo Zuppi potrebbe essere uno di quei preti nei girotondi delle fotografie di Mario Giacomelli. Alto, magro, movimenti veloci, la tonaca nera che svolazza mentre lui si affretta a chiedere: «Che ce lo abbiamo il quarto d’ora accademico?». Perché c’è sempre qualcuno che deve incontrare, vedere, ascoltare. E potresti scambiarlo per un «don Matteo» qualunque, se non fosse uno dei personaggi chiave della Chiesa di Papa Francesco – da poco più di due mesi è il presidente della Cei, da due anni e mezzo cardinale, da sette arcivescovo di Bologna, dove vive felice, amando la città ed essendone riamato. Ogni giorno dice messa a San Petronio, perché ha scelto di non fare celebrazioni private. Non usa i social (a parte Whatsapp) perché «non è il mio modo», ma «so che hanno fatto una pagina Facebook dove mi prendono bonariamente per i fondelli». La pagina, da seimila seguaci, si chiama «Zuppi che fa cose» e fa il verso alla stampa, che da quando è diventato vescovo, nel 2012, lo esalta qualsiasi cosa faccia. \

Le piace la definizione: «un prete di strada che diventa presidente della Cei»?

«No, perché è una banalizzazione e, come tale, sempre 
pericolosa. È tutto molto più complesso».

Allora partiamo dall’inizio. Famiglia numerosa, la sua.

«Eravamo cinque fratelli e ognuno diverso dall’altro. Abbiamo una sola sorella, una tenerissima vice-mamma essendo la seconda, il luogotenente del “generale”…».

Sua madre?

«E certo! Per forza! Fumagalli, brianzola, di Seveso, aveva l’arte del comando. Con facilità, penso, riusciva a gestirci».

Siete ancora uniti, oggi?

«Abbiamo rapporti molto profondi anche se non continui, del resto il senso dell’essere fratelli non sta solo nella frequentazione. Non siamo mai riusciti a litigare davvero, nemmeno quando c’è stata la divisione delle cose del “generale”, quando è morta. Del resto aveva dato sagge istruzioni nel testamento».

Quali?

«“Ricordatevi che quando ci siamo sposati non avevamo niente: tutto questo è il frutto del lavoro di vostro padre e dell’aiuto di vostra madre”. Post Scriptum: “Vedetevi solo tra fratelli, senza mariti e mogli varie”».

I suoi fratelli si sono tutti sposati, ha nipoti?

«Sì, certo. Abbiamo di tutto: sposati, divorziati… Il “generale” non voleva in casa quelle che chiamava “le concubine”, ma c’erano dei Natali che erano un po’ tristi, con i miei fratelli che arrivavano scompagnati. Alla fine abbiamo proposto una sanatoria».

Ricorda quando ha detto al «generale» che voleva farsi prete?

«Che uno dei figli facesse il prete era motivo, da una parte, di felicità, dall’altra, di grande preoccupazione: non ero della tipologia tradizionale. Ricordo che alla mia prima messa, a 26 anni, vennero tutti i miei parenti a Santa 
Maria Maggiore. Ma io, dopo la messa e gli auguri per l’ordinazione, scappai e andai a Primavalle».

«Scappai»?

«Sì, perché forse sarei dovuto stare più con loro, ma per una certa radicalità dell’epoca non concessi molto: avevo fretta di andare in periferia, a celebrare la “seconda prima messa” in una cappellina in uno scantinato».

Perché è entrato in seminario solo dopo la laurea?

«Mi dico sempre che ho fatto tre seminari, essendo un po’ zuccone. Il primo è stato in casa. Mamma e papà erano molto credenti, lui legato a un’esperienza di laicato impegnato. La sua tesi di laurea, per esempio, era sui primi scout, un movimento che, negli anni ’30, aveva un modo diverso di approcciarsi ai ragazzi, che combaciava perfettamente con la visione del “generale”: si lavora e non si perde tempo. A casa nostra a una cert’ora si diceva il rosario: e non è che noi bambini fossimo felici di smettere di giocare per recitarlo».

Secondo seminario?

«La comunità di Sant’Egidio, dove mi sono formato e ho conosciuto il Vangelo ereditato in casa, ma vivo, come la preghiera insieme ai miei coetanei, al liceo. Poi c’è stato il terzo seminario, in senso stretto».

Era l’inizio degli anni ’70, che ragazzo era?

«Ho iniziato il liceo il 1° ottobre 1968. All’epoca, come per i gruppi extraparlamentari, l’adesione, il coinvolgimento in una comunità erano cose fortissime. Era un momento di ricerca, dovevamo cambiare il mondo, l’essere giovane aveva un senso e una responsabilità precisi».

È ancora in contatto con i suoi compagni del liceo?

«Sì, ci vediamo ancora una volta all’anno. Ed è interessante, perché tutte le volte scatta una confidenza immediata, non c’è reverenza, fa bene, è un bagno di realtà. Adesso sono tutti pensionati, alcuni fissati con i nipoti».

Lei non ha mai pensato di mettere su una famiglia?

«Direi di sì, perché avevo l’esempio del matrimonio di mamma e papà, mentre la mia generazione era quella in cui nelle famiglie c’erano già tante difficoltà. Io tuttavia volevo una famiglia più grande, l’idea della comunità era quella. Senza quel gruppo forse non sarei diventato prete».

Con Sant’Egidio nel 1992 è stato mediatore per la pace in Mozambico. È lontana la pace in Ucraina?

«La pace non è mai scontata. Ma tutti possono e devono fare la propria parte perché l’unica via per risolvere i conflitti è lavorare per rimuovere i semi di divisione, di odio, di pregiudizio, di ignoranza che sono terreno per la cultura della violenza, perché la giustificano. Solo il dialogo può neutralizzare l’odio. Speriamo che i fili di dialogo che hanno portato all’accordo sul grano crescano e che l’Onu possa aprire altri spazi di incontro».


Source link

articoli Correlati

Back to top button
Translate »