Molte delle contestazioni sollevate da Trump sono quelle delle imprese italiane
E se il «Liberation Day» di Trump alla fine si trasformasse in una liberazione per l’Europa? Può sembrare una provocazione, ma una lettura attenta delle 397 pagine del 2025 National trade estimate report on foreign trade barriers, il rapporto annuale Usa sulle principali barriere al commercio affrontate dagli esportatori statunitensi (citato dal Presidente americano il 2 aprile), in particolare del capitolo dedicato all’Unione europea, solleva una riflessione interessante: molte contestazioni sono le stesse denunciate da anni dalle imprese europee come eccessive, invasive e onerose. Le criticità evidenziate nel report riguardano molti ambiti. Di seguito quelli più significativi.
Il primo è l’ambiente. Il giudizio statunitense su norme dell’Unione come il regolamento Reach (per migliorare la protezione umana e dell’ambiente dalle sostanze chimiche) o il regolamento sugli imballaggi è condiviso da molte aziende europee. Il secondo è quello della sicurezza alimentare. Basta leggere le parti sul regolamento per l’etichettatura del vino, sulla strategia Farm to Fork (sostenibilità dei sistemi alimentari) o sull’uso degli Organismi geneticamente modificati (Ogm), per citarne alcune. Il terzo, cruciale per le relazioni transatlantiche, è il digitale. Il report punta il dito contro normative come il Digital services act (sui servizi digitali), il Digital markets act (sui mercati digitali dove dominano le grandi piattaforme) e soprattutto il Gdpr (privacy). Le imprese americane – ma anche quelle europee – lamentano costi di compliance elevati, procedure complesse e sanzioni sproporzionate. Forse anche a causa di queste rigidità, non è un caso che l’Europa fatichi ancora a far nascere giganti tecnologici in grado di competere a livello globale.
Nel report non mancano riferimenti espliciti all’Italia. Due i punti critici: da un lato, le procedure lente e complesse per ottenere i permessi in settori strategici come energia e infrastrutture; dall’altro, l’incertezza e, soprattutto, l’imprevedibilità in cui opera l’industria della salute (farmaceutica e dei dispositivi medici), tra politiche di prezzo discontinue e ritardi nei rimborsi e nei pagamenti. I tempi medi con cui gli ospedali pubblici saldano i fornitori – sottolinea il rapporto Usa – superano ancora i limiti previsti dalla normativa europea. Critiche che potrebbero essere state sollevate benissimo da imprese italiane.
Che il carico normativo sia un problema lo ha sottolineato anche Mario Draghi nel suo rapporto sulla competitività: tra il 2019 e il 2024, l’Ue ha adottato circa 13.000 atti legislativi, contro i circa 3.500 atti e le 2.000 risoluzioni approvate a livello federale negli Stati Uniti. Va detto che la regolamentazione è più pervasiva là dove maggiore è la frammentazione istituzionale e corrisponde alla debolezza dei poteri riconosciuti alle istituzioni europee rispetto ai governi nazionali. Aprire qui il tema di governance e competenze dell’Unione sarebbe velleitario, ma questo è di certo al cuore del problema. La Commissione, tuttavia, sembra aver oggi acquisito una diversa consapevolezza rispetto al passato. Ne è una prova il “Pacchetto Omnibus”, presentato il 26 febbraio, che mira ad esentare l’80% delle imprese dagli obblighi in materia di sostenibilità e di investimenti e solleva una domanda scomoda: queste norme erano davvero necessarie?
In questo contesto, la tentazione di rispondere al protezionismo con nuovi dazi rischia di innescare una spirale pericolosa. Un’alternativa c’è: sedersi al tavolo negoziale partendo proprio dalle barriere non tariffarie. Ripensare in chiave strategica le proprie politiche regolamentari, revisionando quelle misure che penalizzano le imprese europee prima ancora che quelle straniere, porrebbe le basi per un negoziato con gli Stati Uniti, ma soprattutto farebbe bene alla competitività del nostro continente.
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