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Tra Washington e Pechino, ora l’Italia guardi all’Africa


Tra Washington e Pechino, ora l'Italia guardi all'Africa

La geografia sta tornando a farsi ideologia. E quindi a riappropriarsi della dottrina dei «grandi spazi» – come li avrebbe chiamati il giurista e politologo tedesco Carl Schmitt – secondo una logica egemonica volta a garantire la pace o almeno una limitazione della guerra. Un secolo e mezzo dopo il «trattato di Tordesillas», la cittadina dove nel 1494 spagnoli e portoghesi si divisero l’America appena scoperta sotto l’occhio vigile della Santa madre Chiesa. Ottant’anni dopo la conferenza di Yalta in cui sovietici, americani e inglesi divisero il mondo in zone di influenza sancendo le regole di ingaggio del nuovo ordine internazionale.

Se non puoi batterli unisciti a loro. Così di fronte a una fase di profondo stallo sul fronte ucraino, il presidente Donald Trump – fedele agli insegnamenti di Giulio Cesare – è riuscito in poco tempo ad organizzare dei colloqui di pace a Riad con la controparte russa. Una mossa che pur tenendo fuori gli europei e lo stesso Volodymyr Zelensky, in realtà punta una più articolata e duratura spartizione dell’influenza planetaria con la Cina.

Probabilmente questa volta senza la Russia, e tantomeno l’Europa. Sia americani che cinesi, divisi su tutto, condividono pertanto l’idea di un mondo spaccato in due perfette metà geografiche, politiche ed ideologiche. In barba alle vacue fantasie di terzietà di europei e russi, peraltro ingenuamente separati dal confine ucraino. Siamo di fronte, senza alcun dubbio, ai prodromi della Seconda Guerra Fredda, che si svolgerà nel Pacifico, nella piazza virtuale dei mercati finanziari come nella corsa allo spazio e ancora sul terreno dell’intelligenza artificiale.

Sul piano strategico, in questo regolamento di conti e di ingaggio tra Oriente e Occidente, o meglio nella costruzione di un nuovo ordine internazionale sino-americano, all’Italia non resta che il sentiero stretto che porta all’Africa attraverso il Mediterraneo. Da qui la nuova postura e proiezione che Palazzo Chigi ha deciso di assumere, anche su mandato statunitense: farsi ponte tra Nord e Sud del Mondo anziché mediatore con il Vecchio Continente. Se è vero che la Cina possiede un vantaggio per via della mole impressionante e spregiudicata dei suoi investimenti nella regione subsahariana, garantendosi il monopolio sul settore minerario e, quindi, l’estrazione

delle terre rare; l’Italia può giocare una partita importante quanto necessaria sul terreno valoriale. Cioè promuovendo l’idea di un’Europa che non può non essere africana ed una Africa che non può non essere europea. Costruire dunque una prospettiva euro-africana, che non significa costruire l’Eurafrica o l’Eurabia, bensì pensare una grande comunità di destino. Gli strumenti, le piattaforme e le unità di missione ci sono e sono state messe già in campo.

Dal Piano Mattei che fa capo al Consigliere diplomatico Fabrizio Saggio al Piano Olivetti che vede nelle sue priorità la cooperazione culturale con Africa e Mediterraneo – appena varato dal ministro della Cultura Alessandro Giuli fino alla Fondazione Med-Or presieduta da Marco Minniti e da poco divenuta «Fondazione per l’Italia». Si aggiungono due proposte che suonano come provocazioni: perché non creare il Padiglione «Mediterraneo» alla Biennale di Venezia? E ancora, perché non candidarsi come 56esimo Paese membro dell’Unione Africana?


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