Piemonte

Bufo bufo, il ‘Ben Grimm’ degli anfibi in pericolo


Da anni, anzi da decenni, le migrazioni dei rospi comuni Bufo bufo verso i propri siti riproduttivi sono oggetto di monitoraggio e di salvataggio da parte di squadre di volontari, supereroi moderni armati di torce e secchi, pronti a sfidare la notte e l’indifferenza umana. La carneficina che abitualmente si consuma sulle strade in nome del “dio automobile” è una tragedia che ricorda un film dell’orrore: migliaia di rospi schiacciati, come se fosse una specie di sacrificio rituale alla divinità del cemento e del progresso. Eppure, è proprio vero: in questo mondo in cui la tecnologia avanza e la natura arretra intimidita, c’è ancora chi si dedica a salvare questi anfibi con la dedizione di un monaco zen. Io stesso ho preso ripetutamente parte a queste operazioni di salvataggio e ancora oggi conservo un vivido ricordo di quelle notti fredde di febbraio, piovose e ventose, quando il destino dei rospi era nelle nostre mani (e nei nostri secchi, per l’appunto).

I protagonisti principali di queste migrazioni sono i rospi (anche se spesso anche altri anfibi si uniscono alla marcia), fedeli come innamorati al loro sito riproduttivo. Una fedeltà che gli scienziati chiamano “filopatria“, ma che io preferisco definire “il richiamo del cuore (e delle gonadi)”. I piccoli girini nerissimi (delle specie di virgole mobili in cui quasi non si scorgono gli occhi), sostanzialmente si “imprintano” all’odore dello stagno natio e, anni dopo, quando raggiungono finalmente la maturità sessuale, ci riprovano, tornando lì per riprodursi. Lo fanno perché, diciamocelo, sono animali tradizionalisti, rustici, resistenti e anche piuttosto testardi. Sono grandi, anzi, con un aspetto che grida “rospo” in ogni fibra del loro essere. Un rospo comune, secondo quanto riportato nella volume Anfibi & Rettili d’Italia riporta i seguenti valori: circa 100 mm per i maschi e 150 mm per le femmine, dalla punta del muso alla cloaca. Le femmine sono assai più grandi dei maschi, come spesso capita per gli anfibi: più una femmina è grande maggiore sarà il numero delle uova deposte. E questo è un carattere positivamente considerato dalla selezione naturale di darwiniana memoria. Entrambi i sessi, comunque, grutoluti quanto basta e brutti secondo i canoni estetici umani (“brutto come un rospo”: ma è solo una questione di gusto, dicono…). Sono praticamente dei veri Ben Grimm, “La Cosa” dell’Universo Marvel degli anfibi: brutti, qualche volta quasi arancioni, forzuti, ma affascinanti, goffi ma determinati. Proprio come Ben Grimm hanno solo 4 dita sulle mani (ma praticamente tutti gli anfibi “normali” hanno questa caratteristica!).

E poi c’è quel nome un po’ ambiguo, “rospo comune”, che oggi suona quasi come una solenne presa in giro. Comune forse una volta? Sicuramente. Abbondante, comune: ancora adesso? Non saprei.  Insomma, il nostro amico Bufo bufo è un po’ come quel vecchio compagno di scuola che tutti prendevamo in giro e bullizzavamo all’epoca, ma che ora, a distanza di anni, ci manca più di quanto vorremmo ammettere. E, forse, in un mondo che corre troppo in fretta sulle Tesla senza guidatore di Elon Musk, salvare i rospi è anche un modo per salvare una porzione più autentica di noi stessi. Oppure è solo una scusa per passare una notte all’aperto con un secchio in mano. Boh, chi lo sa?

Capace di difendersi

E qui si inserisce una piccola nota autobiografica, doverosa. Ho incontrato il mio primo rospo comune durante gli Anni ’60 del secolo scorso a Isolella, in Valsesia, dove trascorrevo le mie vacanze (villeggiatura, si diceva all’epoca). Un leggendario e anziano rospo bello grosso (era probabilmente una femmina) aveva eletto quella tana, ricavata in un muretto a secco vicino a casa mia, a sua dimora e, puntuale come un orologio svizzero, se ne usciva per le sue passeggiate serali, senza un percorso prestabilito. Tutti in zona lo conoscevano, noi ragazzi lo scrutavamo con curiosità e, molte volte, con un pizzico di timore. Dopotutto, era ancora viva la fama dell’anfibio pericoloso: si diceva che, se lo si disturbava, ti avrebbe urinato addosso, rendendoti cieco all’istante. Brutta prospettiva, sicuramente. Una leggenda metropolitana, ovviamente, ma come tante altre che riguardano anfibi e rettili, difficile da sradicare. Eh sì, perché è vero: un rospo, quando viene acchiappato e spaventato, spesso urina, ma non tanto con l’intento di colpire un ipotetico bersaglio (non è un cecchino cloacale, insomma), quanto piuttosto per paura e per distrarre il potenziale predatore.

In casi più estremi, quando si sente davvero minacciato, il rospo tira però fuori l’artiglieria pesante: emette un liquido lattiginoso dalle ghiandole parotoidi, quelle due protuberanze dietro gli occhi. Queste ghiandole sono piene di bufotenina, un alcaloide che brucia le mucose buccali di cani, volpi e altri predatori mammiferi, permettendo al rospo di scappare, magari malconcio ma ancora vivo e vegeto. Se ti tocchi gli occhi con questo veleno, beh, sì, un po’ di bruciore lo senti. E forse proprio da qui che è nata la leggenda di cui sopra. Il veleno lattiginoso contiene la cosiddetta bufotenina (5-idrossi-N,N-dimetil-triptammina o più semplicemente 5-HO-DMT), che è una triptamina dagli effetti psichedelici. Lo sanno bene negli States, dove una specie affine, l’Incilius (una volta anch’esso incluso nel genere Bufo) alvarius, viene usato proprio per facilitare viaggi e ‘trip’ (alcuni per questo scopo leccano il rospo in questione!). Non mi risulta che in Italia lo si faccia con il rospo comune, ma sicuramente un tempo le fattucchiere mettevano i rospi nelle proprie pozioni giusto per questa finalità. Pare anche che la bufotenina del cosiddetto “rospo marino” (Rhinella marina), originario delle americhe, ma oggi invasore in molte parti del mondo. fosse (sia ancora?) utilizzata nelle pozioni usate nei riti voodoo, spesso insieme alla tetrodontossina (una potentissima neurotossina) estratta dalle viscere dei pesci palla.

Quel rospo a Isolella, frazione di Borgosesia, l’ho incontrato regolarmente per diversi anni, come fosse stato un vicino di casa un po’ bizzarro e misantropo, insomma una sorta di Jack Nicholson del mondo batrace. Poi, un giorno, purtroppo, è scomparso. Forse è morto di vecchiaia (però i rospi vivono anche più di vent’anni, lo sai?), oppure è caduto vittima dei ragazzini del posto che, all’epoca, avevano un rapporto con gli animali piuttosto… diciamo “creativo”: lucertole catturate con cappi, libellule trasformate in elicotteri improvvisati con ali mutilate e fili legati all’addome, e rospi infilzati con arpioni artigianali fatti con bastoni e forchette. Insomma, un vero e proprio festival della crudeltà zoologica più o meno volontaria. Quel rospo solitario, oggi scomparso, avrà sicuramente lasciato un vuoto nell’ecosistema locale, non potendo più svolgere il suo lavoro di spazzino notturno divorando falene, mosche e zanzaroni come un aspirapolvere vivente. Così, mentre il mondo cambiava e i rospi diventavano sempre meno “comuni”, anche il mio “bufo” amico di Isolella è diventato un mero ricordo. Un souvenir un po’ goffo, un po’ brutto, ma sicuramente indimenticabile. Proprio come un rospo, per l’appunto.

Il miracolo del Laghetto di S. Agostino

Sempre in Valsesia, nella frazione Roccapietra nel comune di Varallo Sesia, si verifica ogni anno un vero e proprio miracolo naturale nel Laghetto di Sant’Agostino. Qui, una popolazione imponente di rospi comuni si dà appuntamento per la propria tradizionale festa di primavera, che coincide approssimativamente al periodo che va tra la Domenica delle Palme e il Venerdi Santo . Non si tratta però di una festa qualsiasi, ma di un evento che potrebbe far arrossire persino i reality show più spregiudicati, tanta è la foga. Sono andato diverse volte a osservare questo spettacolo e devo dire che è davvero eccezionale: decine, centinaia, di rospi che tentano di accoppiarsi ovunque con qualsiasi oggetto (anche inanimato), in acqua e sulla terraferma, con una dedizione che rasenta il fanatismo fetish. I maschi, oltretutto, emettendo canti gutturali che sembrano usciti dal film “Last of Us”, si lanciano in vere e proprie orge, formando quello che gli scienziati chiamano “mating balls”. In queste biosfere di accoppiamenti selvaggi, una singola femmina viene assalita, letteralmente soffocata, da una folla di maschi, anche nel malaugurato caso in cui la poveretta sia già deceduta. Sì, avete letto bene: l’amore (o meglio, l’istinto sessuale) non conosce limiti, neanche quello della morte. Ma il laghetto di Sant’Agostino non è solo teatro di queste scene da tragica soap opera anfibia. Ci sono altri due fenomeni piuttosto bizzarri che rendono il posto ancora più affascinante per lo zoologo, seppure anche un po’ inquietante. Il primo è la presenza di un’abbondante popolazione di sanguisughe che banchettano allegramente in acqua sui rospi deceduti o indeboliti. Immaginatele un po’ come gli spazzini “dark” del laghetto, sempre pronte a fare il loro dovere con un entusiasmo un po’ macabro. Il secondo è un grosso masso erratico denominato “Sass dij Strij e d’Ava Corna” (Sasso delle streghe e acqua che sgorga dal masso), sotto il quale esce la risorgiva superiore del lago, le cui acque repentinamente di nuovo scompaiono. Si narra che le streghe della zona si radunassero lì, nottetempo, nei secoli passati. Evidentemente, anche loro erano attratte dalla magia del luogo, specialmente nelle notti vicine all’equinozio di primavera. Chissà, forse organizzavano i loro sabba infernali mentre i rospi si divertivano poco più in là. Alcuni di loro saranno sicuramente finiti nei pentoloni delle famigerate pozioni di magia bianca e nera. Purtroppo, oggi il laghetto è invaso da numerosi pesci, per lo più esotici, che hanno un effetto piuttosto deleterio sulle popolazioni anfibi locali (rospi per l’appunto, ma anche tritoni crestato e punteggiati, rane verdi e rane temporarie). Di streghe oggi non c’è più traccia (almeno ufficialmente).

Per concludere, mi tornano in mente quelle notti gelide a Cellarengo, in provincia di Asti, dove la grande abbondanza di stagni e specchi d’acqua ha fatto sì che, negli anni Ottanta del secolo scorso, io e gli studenti e i tesisti del Dipartimento di Biologia Animale (oggi DBIOS) dell’Università di Torino andassimo a condurre i primi studi sull’eco-etologia del rospo comune. Notti passate a tremare dal freddo, in compagnia di amici e professori tra cui Caterina Gromis di Trana e Giorgio Malacarne, che all’epoca conducevano studi sulla selezione sessuale nei rospi e altri animali. Erano tempi in cui il termometro segnava ancora temperature piuttosto basse, ma l’entusiasmo per la ricerca era rovente. Oggi, la conservazione dei rospi è diventata una priorità per molte aree protette, che ne hanno fatto un appuntamento ineludibile alle prime piogge primaverili. La diminuzione progressiva delle loro popolazioni ha causato una crescente preoccupazione tra gli erpetologi, che si trovano a fare i conti con un declino silenzioso ma inesorabile.

Che mondo sarebbe, senza rospi? 

Salvaguardare gli habitat originali e ridurre la mortalità di questi animali è un’azione prioritaria, perché, diciamocelo, un mondo senza rospi sarebbe indubbiamente un mondo più triste, più silenzioso e decisamente meno interessante. Dopotutto, chi altri potrebbe regalarci spettacoli come le “mating balls” o le notti magiche di concerti gutturali al laghetto di Sant’Agostino?
Insomma, mentre il mondo corre verso un futuro piuttosto distopico alimentato da vari tipi di intelligenze artificiali, i rospi ci ricordano sempre che c’è ancora spazio per la meraviglia, l’impegno e, perché no, un po’ di sana follia notturna in compagnia di secchi e torce (e streghe). Perché, in fondo, salvare i rospi sulle strade delle nostre regioni non significa solo proteggere una specie, ma preservare un pezzo di quel mondo magico e un po’ strambo che ci ha fatto innamorare della natura.

* Franco Andreone è Conservatore di Zoologia al Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino nonché membro del gruppo di coordinamento dell’ IUCN/SSC Amphibian Specialist Group

 

 


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