“Sono bombe ad orologeria”. L’allarme per le prigioni dei terroristi dell’Isis in Siria
È allarme per i circa 9000 prigionieri ex combattenti dell’Isis rinchiusi nei campi profughi di Al-Hol e Roj, le prigioni a cielo aperto nella Siria nordorientale in cui vivono anche altre 50mila persone, tra le quali mogli e figli degli integralisti. A far riaffiorare le paure legate alla minaccia dello Stato Islamico sono il crollo del regime di Bashar al-Assad e l’incertezza politica in cui è piombato il Paese mediorientale ora amministrato dagli “islamisti dal volto umano” di Hayat Tahrir al-Sham (Hts).
“Una bomba a orologeria”. Così un funzionario anonimo dell’antiterrorismo degli Stati Uniti definisce la situazione dei prigionieri seguaci di Al Baghdadi che nel momento di massima espansione controllavano gran parte della Siria e del vicino Iraq. Le migliaia di detenuti e le loro famiglie sono sorvegliate con armi limitate dai curdi delle Forze democratiche siriane (Sdf) appoggiate dagli Stati Uniti ma le autorità americane, e non solo, temono che possa verificarsi un’evasione di massa con rischi incalcolabili per la sicurezza globale.
Già nelle ore successive alla caduta di Damasco l’Sdf, dopo aver denunciato di aver subito gli attacchi delle forze filoturche dell’Esercito nazionale siriano (Sna), ha annunciato la sospensione delle operazioni contro elementi dell’Isis presenti nelle aree sotto il suo controllo. Sebbene nel frattempo sia stato raggiunto un (fragile) accordo per il cessate il fuoco con l’Sna, permane il rischio che i prigionieri possano sfruttare il caos post-Assad per scappare oppure che i terroristi possano compiere attacchi per liberare i loro compagni.
La giornalista Monica Maggioni ha raccontato per La Stampa della minaccia a tempo rappresentata dai “cuccioli dell’Isis”, i bambini di Al-Hol che sin dalla nascita “non hanno mai visto altro universo se non quello delimitato dal filo spinato”. “Nessuno sa quanto reggerà la recinzione che chiude il campo”, scrive Maggioni che si interroga sull’”incognita più grande” che, nascosta “tra le tende stracciate del campo“, incombe sulla Siria e sul Medio Oriente.
L’ex generale Joseph Votel, alla guida del Comando centrale degli Stati Uniti tra il 2016 e il 2019, ha dichiarato a Politico di essere “molto preoccupato” per quello che descrive come “un esercito terroristico in stato di detenzione”. La maggior parte dei combattenti dell’Isis catturati non provengono solo da Iraq e Siria ma anche dall’Europa, dall’Asia Centrale e dal Nord America. Tale circostanza ha posto il problema dei foreign fighter e del loro ritorno osteggiato dai Paesi di origine che ha comportato la creazione di un limbo legale per decine di migliaia di persone.
Per impedire il ritorno della multinazionale del terrore Washington nei giorni scorsi ha colpito decine di obiettivi dello Stato Islamico nel Paese retto col pugno di ferro per oltre 50 anni dagli Assad. Un portavoce del Pentagono ha inoltre appena confermato che le truppe americane in Siria non sono 900, come ritenuto sino ad ora, ma “circa 2000”. Il contingente Usa opera nel quadro della lotta all’Isis, ha spiegato il portavoce del ministero della Difesa precisando che le “forze aggiuntive” sono schierate in modo temporaneo per “i requisiti mutevoli della missione”.
Sullo sfondo però adesso aleggia l’avvicendamento alla Casa Bianca.
Jim Jeffrey, rappresentante speciale per la Siria durante il primo mandato di Donald Trump, si dice certo che le forze curde siano in grado di mantenere il controllo delle prigioni, indipendentemente dal fatto che gli Stati Uniti mantengano oppure no la loro presenza militare. E su questo punto il tycoon potrebbe esprimersi molto presto.
Source link