Lavori da incubo, l’esperienza di Gennaro con il volantinaggio: «16 ore al giorno per meno di tre euro l’ora»
Prosegue con la storia di Ginevra la serie di articoli che Umbria24 dedica ai racconti dei giovani umbri alle prese con un mercato del lavoro dove non mancano casi di sfruttamento, paghe da fame, mancate tutele e così via. Per raccontare la vostra esperienza contattateci attraverso i canali social di Umbria24 oppure mandate una mail a redazione@umbria24.it o umbria24tr@gmail.com
di Ilaria Alleva
Gennaro ha 30 anni, si è laureato da poco dopo aver dato una mano nell’azienda di famiglia mentre studiava. Decide di iniziare a fare esperienza per conto suo anche in altri settori, e su suggerimento di un amico contatta una ditta di pubblicità.
Orari impossibili Nonostante fosse stato messo in contatto da un amico, Gennaro ha da subito ricevuto un pessimo trattamento: «Il primo giorno mi hanno fatto firmare un protocollo di intesa invece di un vero e proprio contratto. Risultato? Venivo pagato con ritenute d’acconto. Ho iniziato con le squadre: partenza alle ore 7.00 e orario del ritorno non garantito». Ovviamente, la paga era sempre la medesima, indipendentemente dal ritorno. «Potevamo lavorare anche 16 ore al giorno e a volte siamo rientrati anche alle 23.00. Si lavorava con la pioggia, con la neve, col sole cocente». L’azienda non spendeva un centesimo nemmeno per la manutenzione dei furgoni, che quasi sempre avevano problemi: «Quando succedeva stavamo per strada finché qualcuno dal magazzino non veniva a riprenderci. Facevamo notte tutte le volte». L’area di interesse era molto vasta: dall’alto Lazio fino all’alta Toscana, passando per ogni zona dell’Umbria.
Lavoro a squadre «La nostra squadra era coordinata da una caposquadra estremamente maleducata: ci insultava, bestemmiava di continuo, ci diceva che le facevamo venire il vomito perché secondo lei eravamo dei fannulloni che volevano guadagnarsi la giornata senza far nulla». La donna sembrava godere nel torturarli: «Dava istruzioni sbagliate sulle strade da fare: tu le seguivi, ma quando sbagliavi la colpa era la tua. Lei iniziava a urlare, a insultarti, e se provavi a dirle che avevi seguito le sue spiegazioni si imbestialiva ancora di più e andava sul personale: ‘Sei un cretino, nella vita non combinerai mai nulla!’. Spesso era lei stessa a sbagliare strada». La cosa rallentava il rientro: «Tornavamo spesso a notte fonda, mentre altre squadre riuscivano a tornare prima».
Razzismo e maleducazione La caposquadra era anche razzista: gli immigrati erano moltissimi e venivano trattati peggio che mai a causa dei loro problemi linguistici. Ovviamente tutto questo contribuiva a creare un ambiente tossico e tremendo. «Quando la caposquadra faceva delle scorrettezze nessuno aveva il coraggio di denunciarle per timore delle ritorsioni: ognuno di noi era in competizione con l’altro per cercare di evitare le sue sfuriate. Andava anche dalla titolare per metterti in cattiva luce e non farti più chiamare, così noi preferivamo farci gli affari nostri». Tra le altre cose la donna era anche una pirata della strada: aveva una guida sconsiderata, correva, inchiodava sui semafori. Coi dipendenti era una vera e prorpia bulla: mentre altri capi aiutavano i ragazzi quando li vedevano in difficoltà, come quando si lavorava sotto il sole cocente di agosto alle 15.00, quella di Gennaro passava vicino ai suoi sottoposti con il finestrino del furgone abbassato per insultarli. Ovviamente la donna si limitava a guidare.
Lavoro a chiamata Il lavoro era a chiamata: capitava spesso di essere contattati in tarda serata per il giorno successivo, quando invece i titolari avevano detto che non ce ne sarebbe stato bisogno. «Se ti rifiutavi, smettevano di chiamarti. Ci facevano storie se provavamo a dire che avremmo voluto cambiare lavoro: era mobbing sicuro. La vita sociale non te la potevi permettere, si stava sempre fuori casa. Alla caposquadra invece tutto era concesso: non ricordo più quante volte abbiamo fatto tardi perché lei doveva fermarsi in banca o a fare delle commissioni personali». Tutto questo per quanto? 36 euro al giorno. Meno di quanto viene pagato un bracciante dai caporali.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso «Un giorno non ci ho visto più: eravamo al lavoro, a mettere i volantini, e la caposquadra ha iniziato a insultarmi non ricordo più nemmeno perché» racconta Gennaro. «Mi è scattato qualcosa: ero stanco di tutti quei soprusi. Così mi sono ribellato: le ho detto che se avesse continuato ad avere questo atteggiamento anche io sarei andato dalla titolare a lamentarmi. Lei continuava a inveire contro di me e allora le ho tirato un pacco di volantini -cosa che lei aveva già fatto in diverse occasioni. Lei l’ha evitato e mi ha invitato alla calma, ma anche lei si era calmata parecchio». Da quel giorno la superiore ha iniziato a trattare Gennaro con più rispetto.
Dove vuoi andare? Poi Gennaro ha fatto anche il volantinaggio in solitaria, sempre per la stessa azienda. «Mi chiamavano a tutte le ore, di tutti i giorni. Cambiavano i turni all’ultimo minuto, ti informavano dei giri che dovevi fare anche il giorno stesso». Gennaro ha provato a dire che avrebbero potuto avvertirlo prima. La risposta era sempre: «Se vuoi lavorare con noi queste sono le condizioni, tanto dove pensi di andare?» e così gli impedivano anche di fare colloqui altrove. L’assicurazione non era inclusa. «Un giorno un collega si è fatto male e ha dovuto dichiarare di non essere al lavoro, pagandosi tutto da solo».
Al limite dello stalking «Alla fine, per fortuna, mi hanno chiamato altrove, con una paga dignitosa». Ma l’incubo non era finito: «Continuavano a chiamarmi, pretendendo che io lasciassi il mio lavoro, quello per cui avevo studiato, quello che davvero mi dava da mangiare, per mettere i volantini per loro. Dopo mesi alla fine ho risposto in maniera maleducata e ho dovuto bloccare i contatti: solo così mi sono liberato di quegli sfruttatori. Chiaramente ho fatto una pessima pubblicità e non lo auguro a nessuno».
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