Concordato preventivo, la “rivoluzione” immaginaria di Leo e la realtà dei fatti: chi aderisce paga meno e lo Stato perde gettito
Maurizio Leo abbozza. “È un risultato da valutare, discreto“, dice commentando i deludenti numeri con cui si è chiusa la seconda finestra per aderire al concordato preventivo biennale tra fisco e partite Iva. Il viceministro all’Economia si è peraltro ben guardato dall’ufficializzare i dati, che come in altre occasioni sono stati “anticipati” dal Sole 24 Ore. Cosa dicono? Che lo strumento su cui l’esponente di FdI aveva scommesso, convinto che avrebbe indotto i contribuenti infedeli a dichiarare gradualmente di più, è stato scelto in totale solo da 584mila partite Iva, il 13% di una platea di 2,6 milioni di autonomi soggetti agli Indici di affidabilità fiscale e 1,7 milioni di forfettari (quelli che applicano la flat tax). La seconda tranche ha fatto registrare meno di 60mila adesioni aggiuntive, confermando il flop emerso dai risultati della prima tornata chiusa il 31 ottobre. Il gettito si fermerà a 1,6 miliardi: troppo poco per finanziare il taglio di due punti della seconda aliquota Irpef, meno delle stime delle previsioni poi prudenzialmente azzerata quando la maggioranza ha deciso di aprire le porte del nuovo strumento anche ai probabili evasori.
Leo continua a vedere il bicchiere mezzo pieno, festeggiando il fatto che “188-190mila contribuenti” con un punteggio Isa inferiore a 8 “sono diventati soggetti affidabili” accettando la proposta di reddito per il 2024 e 2025 presentata dall’Agenzia delle Entrate. Ma il viceministro con delega al fisco non può non sapere che si tratta di un misero 12% di quegli 1,5 milioni di contribuenti Isa che stando agli ultimi dati del dipartimento Finanze (relativi alle dichiarazioni 2023) hanno pagelle fiscali insufficienti. E che non è affatto, come sostiene, una “rivoluzione“, legata magari agli imbarazzanti spot sulla lotta all’evasione lanciati un paio di mesi fa dal Mef. Lo scorso anno, senza la stampella del concordato, 171mila contribuenti Isa con voto basso avevano spontaneamente deciso di migliorarlo per ottenere i vantaggi già riservati ai più affidabili indicando in dichiarazione dei redditi ricavi che non risultavano dalle scritture contabili. La nuova misura ha fatto poco meglio. Al prezzo di una perdita per lo Stato.
Con una delle tante modifiche in corsa caldeggiate dai parlamentari di maggioranza si è infatti deciso di offrire a chi ha aderito un forte sconto fiscale sulla differenza tra il reddito dichiarato l’anno prima e quello proposto dall’Agenzia. Se prima il maggior reddito finiva nell’imponibile Irpef, ora c’è l’opzione di versare un’aliquota del 12% in caso di Isa 6 o 7 e 15% nel caso sia sotto il 5. E per il primo anno arriva pure uno “sconto” del 50%: si tiene conto solo di metà della maggiorazione necessaria per arrivare a un voto Isa 10. Per tacere della sanatoria a prezzi di saldo sul nero fatto negli anni dal 2018 al 2022. Dietro quelle adesioni c’è insomma un mero calcolo di convenienza. Non certo il timore di subire in caso contrario maggiori controlli, visto che le risorse umane e materiali delle Entrate – in attesa di un nuovo direttore dopo le dimissioni di Ernesto Maria Ruffini – resteranno immutate.
Che l’erario ci perda rispetto a uno scenario senza concordato rischia del resto di essere il punto di caduta dell’intera operazione. Infatti anche i 270mila autonomi “virtuosi” che hanno detto sì all’intesa avrebbero con tutta probabilità pagato di più. Se hanno sottoscritto la proposta delle Entrate è perché prevedono che l’anno prossimo vedranno salire i ricavi. E avranno quindi redditi effettivi superiori a quelli su cui hanno accettato di pagare le tasse. Con l’ulteriore vantaggio di versare, sulla differenza tra il reddito concordato e quello dichiarato contribuente nel periodo d’imposta precedente, una “flat tax incrementale” che per loro si ferma al 10%.
Per i circa 120mila “forfettari”, per i quali il concordato vale solo per il 2024 e le adesioni si sono chiuse senza appello a fine ottobre, la valutazione di appetibilità è stata ancora più semplice. Lo Stato li ha messi nella condizione di scegliere avendo chiaro il quadro del giro d’affari dell’intero anno. Non solo: per loro l’intesa col fisco presenta un ulteriore plus. Chi ha “concordato” è esentato dal rispetto del tetto di ricavi di 85mila euro oltre il quale usualmente si torna nell’Irpef e può arrivare a 150mila euro senza uscire dall’accordo.
Insomma: altro che gettito aggiuntivo da impiegare a copertura di altre misure. Un ripensamento sembra d’obbligo. Leo, tra le righe, ammette che qualcosa deve cambiare: “Possiamo vedere come fare le correzioni”. Ma la logica, dice, non si discute: “È stato avviato un percorso. Noi vogliamo cambiare il fisco, agire ex ante e fare in modo che i contribuenti che presentano profili di criticità mano mano si allineino“. Il risveglio potrebbe essere brusco.
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