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Wolfgang Press – A 2nd Shape :: Le Recensioni di OndaRock

Se il ritorno dei Wolfgang Press non è la notizia dell’anno, poco ci manca. Forse qualcuno li aveva dimenticati, dato che l’ultimo album “Funky Little Demons” risale all’ormai lontano gennaio 1995, eppure prima di scomparire dai radar erano considerati tra i musicisti più virtuosi ed eclettici dell’intero panorama post-punk britannico. Nati dalle ceneri dei Rema Rema e dei Mass, due band dal talento raro che però ebbero brevissima durata, dopo diversi cambi di line-up si riorganizzarono definitivamente in un terzetto, composto dal cantante e bassista Michael Allen, dal tastierista Mark Cox e dall’ex-chitarrista degli In Camera Andrew Gray. Il boss della 4Ad Ivo Watts-Russell se ne innamorò all’istante ascoltando un demo, così offrì loro un contratto con la label che agli albori – cioè prima ancora di costruirsi una nomea nel dream-pop tramite Cocteau Twins, This Mortal Coil, Pale Saints etc.- si stava occupando di una serie di pubblicazioni particolarmente cupe, dall’ estetica goth, tra cui i dischi d’esordio di Bauhaus, Modern English e Birthday Party.

 

All’interno di questa filiera underground dalle sonorità funeree e minacciose si inserisce alla perfezione, nel 1983, anche l’oscuro debutto dei Wolfgang Press “Burden Of Mules”, che però resterà un episodio sui generis. Strada facendo infatti i tre preferiscono virare verso un ibrido funk-elettronico dalle venature soul, sino a deragliare in esperimenti sampladelici più marcatamente dance nel decennio successivo. Ciascuno dei cinque Lp incisi dal gruppo risultò stilisticamente diverso dal precedente ma sempre ricco di spunti, peccato che la parabola si interruppe in modo brusco e nel momento meno opportuno, ovvero durante l’avvento di quel Bristol sound che per caratteristiche avrebbe potuto rappresentare la dimensione ideale per la band, a giudicare dal percorso intrapreso. Ventinove anni dopo Allen e compagni hanno deciso di ripartire con “A 2nd Shape”, che si configura come l’ennesima tappa di un’evoluzione ininterrotta. Al posto di Mark Cox (che aveva lasciato nel 1995 poco prima della release di “Funky Little Demons”) c’è ora Stephen Gray, fratello di Andrew, ma la novità più ghiotta è che l’album stavolta è distribuito via Downwards Records, l’etichetta fondata a Birmingham da Karl O’Connor (alias Regis) nota per unire post-punk a influenze industrial-techno.

 

Il risultato è un efficace compromesso tra modernità e richiami al passato più inquieto e minimal, con synth nevrastenici, drum-machine rallentate e elementi dub ad alimentare paranoie stimolanti e vitali, come nelle disturbate “The Line” e “Glacier”, alterate da dissonanze noise e riverberi, nella strumentale “The 1st” o nella accattivante ballad meccanizzata dalla sensibilità pop “Knock Knock”, sussurrata in slow motion con voce sensuale dal cantante Michael Allen che riesce, come da tradizione, a svariare con disinvoltura e rapidamente di umore. Tutte le nove canzoni in scaletta sono state registrate con tecnologia pre-Pro Tools utilizzando una vecchia ADAT a otto tracce, che Andrew Grey si è procurato su eBay insieme a delle Vhs. “Non volevamo usare i computer” hanno spiegato a tal proposito, “per noi era importante poterle suonare dal vivo con pochissime manomissioni o sovraincisioni”, come accaduto di recente a Lodz, in Polonia, in occasione della sedicesima edizione del “Soundedit Festival”. I testi sono densi e impegnati, spesso ancorati a vicende di cronaca reale come accaduto altre volte in passato (ricordate la loro “Kansas” del 1989 che trattava dell’assassinio di Kennedy?). Ora il singolo di lancio “Sad Surfer”, costruito su un ritmo di batteria storpio e sbavature di chitarra, narra con pathos disgregante la storia del pittore inglese di epoca vittoriana Richard Dadd, autore di paesaggi immaginari popolati da fate e altri esseri soprannaturali: convinto che suo padre fosse il diavolo, Dadd lo uccise e fuggì in Francia, dove venne arrestato dalla polizia, e da allora trascorse il resto della propria esistenza in patria negli ospedali psichiatrici di Bethlem e Broadmoor.

 

L’atmosferica “Reset Your Mind” è guidata per la sua interezza da un drone dalle coordinate ambient, “Take It Backwards” invece pompa un ritornello a folate che ne fa il pezzo più orecchiabile e immediato, mentre “21st Century” oscilla con sarcasmo sui synth accentuando la continua bipartizione, comune a tutta la tracklist, tra suoni aggressivi e tentazioni house, che fanno tornare alla mente i trip esoterici dei Coil di “Love’s Secret Domain” e i Legendary Pink Dots del periodo di “Nine Lives To Wonder”, ma in generale un po’ tutta la club culture acida di inizio anni Novanta. Nota di merito per il brano d’apertura “This Garden Of Eden”, a sfondo auto-analitico, che riporta in primo piano, come era usanza agli esordi, pesanti linee di basso in stile Public Image Ltd. o Tuxedomoon e il baritono rauco di Allen che qui si trattiene a stento quando invece parrebbe voler urlare. Un ritorno sorprendente e gradito senza concessioni per la nostalgia: “A 2nd Shape” è sì un doveroso sguardo al sound di un tempo, però inteso come presa di coscienza del proprio Dna musicale e con atteggiamento costruttivo proiettato al futuro. Chissà se avrà poi davvero un seguito o resterà solo un blitz isolato, ma intanto godiamocelo.

12/12/2024




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