Edoardo Leo: «Se al ristorante passa una donna e gli altri al tavolo fanno commenti terribili, io mi alzo e me ne vado»
Questa intervista a Edoardo Leo è pubblicata sul numero 46 di Vanity Fair, in edicola fino al 12 novembre 2024.
L’ultima volta che Edoardo Leo ha pianto è stato poco prima di questa intervista, in un’aula dell’Università di Firenze, davanti a quattrocento studenti. Sta girando l’Italia per raccontare il nono film da regista, Non sono quello che sono, l’Otello di Shakespeare tradotto in romanesco e ambientato ai nostri giorni, uno squarcio sul tema dei femminicidi. Al termine della masterclass, una ragazza ha chiesto il microfono. Non per fare una domanda. «Ho subito uno stupro. È cominciato sull’autobus che mi portava a scuola. C’era un ragazzo che mi guardava tutta…». Poi è scesa nella sofferenza, mentre la platea franava in un silenzio grave. Le parole si mischiavano alle lacrime e, quando ha esaurito le prime, Edoardo Leo si è alzato dalla cattedra ed è andato ad abbracciarla. Non riusciva a fare altro.
E ancora ci pensa mentre parla con noi davanti a un bicchiere di vino rosso, al termine di una giornata iniziata a Perugia, prima di ripartire per Urbino e poi Catania.
Eccolo, uno dei talenti più a lungo incompresi, tra i pochi papabili eredi di Alberto Sordi. Cinquantadue anni, venti di «gavetta» (dice lui) e gli ultimi dieci in accelerazione costante: la commedia come «principale datore di lavoro», il teatro come «dovere civile», la regia come «rischio necessario». L’impegno nel direttivo di Una Nessuna Centomila, la fondazione contro la violenza sulle donne, e nel sindacato Unita, affinché i lavoratori dello spettacolo abbiano condizioni eque. Due figli adolescenti, la faccia da «ex calciatore fallito» (dice sempre lui), il fisico che si è già dimenticato dei 20 chili presi per interpretare Iago, una mezza tacca di criminale capace di svegliare il mostro della gelosia in Otello in Non sono quello che sono, nelle nostre sale dal 14 novembre dopo il passaggio al Festival di Locarno 2023.
Come le è venuto in mente di misurarsi con Shakespeare?
«La miccia è stata un titolo di giornale: “Uomo uccide la moglie e poi si suicida”. Ho pensato: è la storia di Otello».
Sono titoli frequenti: nei primi dieci giorni del suo tour nelle università sono state uccise cinque donne.
«Quel titolo risale al 2006 o al 2007. Volevo che Non sono quello che sono fosse il mio esordio alla regia, ma allora non me l’avrebbe prodotto nessuno: io non ero nessuno, il cinema puntava sulle commedie e i femminicidi non occupavano le prime pagine dei quotidiani. Ho cominciato comunque a scrivere la sceneggiatura nei ritagli di tempo. Ho letto parecchie traduzioni e visto tutti i film possibili sull’Otello, musical indiani compresi».
È stato fedele all’originale. Ha solo eliminato le parti che potessero indurre a pensare a Otello come a «un poveretto».
«Avrei fatto un’operazione antistorica se avessi permesso al pubblico di provare compassione per il carnefice. Ho tagliato di netto il famoso monologo dell’addio alla vita del protagonista, cavallo di battaglia di tanti primi attori del ’900. Per questo verrò bannato da qualche
circoletto di Shakespeare? Va bene così».
Non sono quello che sono l’ha trasformata parecchio fuori. E dentro?
«La fase di preparazione ha acceso una luce sul mio maschilismo inconsapevole, sui comportamenti patriarcali che qualche volta non ho riconosciuto o tenuto a bada».
Per esempio?
«Ho realizzato di non essermi mai indignato guardando il pugilato, sport nobilissimo dove a un certo punto però una ragazza in costume sui tacchi sfila con il cartellone del round e gli spettatori la insultano per divertimento. Quando è uscito il film Mia (sulle relazioni tossiche tra i giovani, ndr), ho intimato a mia figlia di 14 anni: “Non permettere a nessuno di dirti come truccarti, come vestirti, a che ora uscire. Nemmeno a me”, e mi sono pure sentito figo. Non mi ha sfiorato invece il pensiero di chiedere a mio figlio, oggi 18enne, se è mai stato ossessivo, morboso, possessivo. L’altro giorno, davanti a una partita di calcio in tv, mi sono rivolto a un giocatore con un’espressione infelice: “Ma fai il maschio!”. Siamo tutti parte del problema».
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