Cultura

Approfondimenti – La vita segreta dei tormentoni

Ci sono canzoni che crediamo di conoscere fin dall’infanzia, brani entrati così a fondo nell’immaginario pop da sembrare nati in un grande studio di Los Angeles o Londra, confezionati da produttori dal pedigree impeccabile. E invece no. Dietro molti tormentoni occidentali si nascondono storie che arrivano da tutt’altre latitudini, melodie nate lontano dall’inglese e spesso passate inosservate fuori dai loro contesti d’origine: canti zulu trasformati in standard americani, brani russi travestiti da tormentoni eurodance, boleri andini diventati successi planetari, inni makossa risorti come colonna sonora dei Mondiali.

Questo articolo raccoglie alcune di queste cover insospettabili, casi in cui un brano non anglofono – a volte amatissimo nella sua scena locale, altre volte quasi sconosciuto – è stato riadattato, riscritto o campionato fino a diventare un successo internazionale. È un viaggio attraverso i percorsi tortuosi della popular music, dove identità, appropriazioni, reinvenzioni e fraintendimenti culturali si intrecciano fino a creare qualcosa di nuovo, spesso cancellando le tracce dell’opera originale.

E la cosa sorprendente è che, in molti di questi casi, l’originale non è solo diverso: è spesso più intenso, più ricco, più bello. Non una semplice lista di “curiosità”, ma un modo per riascoltare la storia del pop dal punto di vista di chi, almeno nella prospettiva occidentale, è rimasto nell’ombra, recuperando le radici autentiche di canzoni che pensavamo di sapere a memoria.

The Tokens – “The Lion Sleeps Tonight” (Usa, 1961) → Solomon Linda’s Original Evening Birds – “Mbube” (Sudafrica, 1939)

solomonlinda_1_01Poche canzoni incarnano in modo così netto la traiettoria con cui il pop occidentale ha assorbito – e spesso cancellato – le musiche del resto del mondo. “The Lion Sleeps Tonight”, con il suo falsetto infallibile, le armonie zuccherate e quell’”awimoweh” che sembra uscito da un cartone Disney, è entrata così a fondo nell’immaginario collettivo da sembrare un classico nato negli studi americani degli anni Sessanta. Le sue radici affondano altrove, in un’epoca e in un contesto completamente diversi. Nel 1939, in Sudafrica, Solomon Linda – impiegato di magazzino e leader degli Evening Birds – incise “Mbube” per la Gallo Records di Johannesburg. “Mbube” significa “leone” in zulu, ed è il nome che avrebbe poi dato origine al termine “mbube“, diventato nel tempo una delle definizioni della musica corale zulu. Quel brano, costruito su un canto ipnotico e su un richiamo vocale lacerante, è un piccolo prodigio di essenzialità: una progressione ciclica, una linea melodica arcaica e una voce – quella di Linda – che sembra spingere la musica oltre i margini della stanza di registrazione.
Il successo fu immediato in Sudafrica (si vocifera sia stato primo disco sudafricano a vendere più di 100mila copie), ma non bastò.
Quando la canzone arrivò negli Stati Uniti negli anni Quaranta attraverso le interpretazioni di Pete Seeger e dei Weavers, il titolo fu traslitterato come “Wimoweh”, e il brano cominciò a circolare nell’ambiente folk senza che né Solomon Linda né la Gallo Records ricevessero un centesimo. Nel 1961 i Tokens ne realizzarono la versione destinata a diventare celebre, “The Lion Sleeps Tonight”: un’interpretazione levigata, orchestrale, ripulita di ogni asperità, trasformata in un pop da juke–box. La distanza rispetto all’originale è enorme: non solo nel suono, ma nella cancellazione completa del suo contesto culturale.
Solomon Linda non vide mai il successo globale della sua canzone. Morì nel 1962 in povertà, senza diritti d’autore, senza credito internazionale, mentre il brano continuava a generare proventi enormi. Solo decenni dopo, in seguito a un lungo processo promosso dagli eredi – e amplificato da un’inchiesta giornalistica che riportò la vicenda alla luce – la famiglia ottenne finalmente un risarcimento e il riconoscimento formale della paternità di Linda.

Frank Sinatra – “My Way” (Usa, 1969) → Claude François – “Comme d’habitude” (Francia, 1967)

claudefrancoisenconcerten19741“My Way” è così profondamente associata a Sinatra da sembrare una canzone nata già vestita di smoking: l’orgoglio individualista, l’uomo solo davanti al destino, la celebrazione di un’esistenza vissuta secondo le proprie regole. Un inno americano, quasi un autoritratto mitologico. In realtà, la sua melodia arriva da tutt’altra parte: dalla Francia della fine degli anni Sessanta, dal mondo pop raffinato e malinconico di Claude François.
Nel 1967 François pubblicò “Comme d’habitude”, scritta insieme a Jacques Revaux e Gilles Thibaut. Il brano non ha nulla dell’epica di “My Way”: è il racconto intimo e disilluso di un amore alla deriva, la routine di una coppia che si è consumata senza accorgersene. Ogni frase suona come una resa, un dolore trattenuto, una constatazione amara. La melodia, invece, è ampia, flessuosa, elegante: un contrasto che le dà un fascino quasi cinematografico. È una delle canzoni più note di François, ed è stata reinterpretata in Francia da decine di artisti, proprio per la sua delicatezza melodica.
La svolta arriva quando Paul Anka ascolta il brano durante un viaggio in Europa. Ne intuisce subito la forza, compra i diritti internazionali, scrive di proprio pugno un testo su misura per Sinatra: niente più quotidianità spenta, ma la fierezza di un uomo al tramonto, che guarda alla vita come a un’impresa solitaria e compiuta. La stessa melodia, ma un’altra filosofia.
Il resto è storia: “My Way” diventa un classico planetario, un pezzo identitario che travalica generazioni e contesti. Eppure l’originale resta lì, con il suo passo lieve e una tristezza quasi domestica, una gemma del pop francese che racconta tutt’altra emozione. 

Terry Jacks – “Seasons In The Sun” (Canada, 1974) → Jacques Brel – “Le moribond” (Belgio, 1961)

jacques_brel_19622“Seasons In The Sun” è uno di quei brani che sembrano usciti direttamente dall’America dei primi anni Settanta: voce fragile, atmosfera agrodolce, un senso di malinconia solare che accompagna uno degli addii più celebri della storia del pop. Nel 1974 diventa un successo mondiale: numero 1 negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in mezzo pianeta. È la canzone che definisce la breve e fulminea carriera di Terry Jacks, ed è così radicata nell’immaginario anglofono da sembrare nata per forza lì.
E invece la sua storia non comincia affatto in Nord America. La melodia viene da Jacques Brel, uno dei cantautori europei più influenti del Novecento, che nel 1961 incise “Le moribond”. È importante ricordarlo: non era uno dei suoi brani centrali, non apparteneva al gruppo di canzoni — “Ne me quitte pas”, “Amsterdam”, “Quand on n’a que l’amour” — che definiscono il suo mito. Ma pur essendo inizialmente rimasta in ombra, grazie alla cover diventerà la canzone che garantirà a Brel più diritti d’autore di qualsiasi altro suo brano. Un paradosso perfetto per questa storia. “Le moribond”, nella versione originale, è tutt’altro che un addio romantico: come scritto nella monografia di OndaRock su Brel, è il congedo sarcastico di un uomo moribondo su un andamento terzinato il protagonista rivolge le ultime parole alle persone che hanno segnato la sua vita (il miglior amico, il curato, la moglie e l’amante di lei). È una canzone piena di sfumature morali, di crudeltà sottile, di teatralità corrosiva.
Quando Terry Jacks decide di reinterpretarla, la trasforma in qualcosa di completamente diverso. Il testo viene quasi interamente riscritto: spariscono l’ironia, il sarcasmo, la critica sociale. Al loro posto arriva un tono sentimentale e dolcemente tragico. Musicalmente la canzone si alleggerisce, la struttura viene semplificata, la voce assume un timbro fragile e tremolante che la radio americana abbraccia all’istante. È una metamorfosi radicale: lo stesso scheletro melodico, ma un’anima nuova, depurata delle ombre che la rendevano tipicamente breliana. “Seasons In The Sun” conquista il mondo, mentre “Le moribond” rimane un classico per gli appassionati della chanson. Ascoltate una dopo l’altra, fanno quasi impressione: la prima è un addio luminoso, la seconda un commiato graffiante. 
E così accade l’ennesimo paradosso di questa storia: una delle canzoni meno centrali di Brel diventa, grazie alla sua metamorfosi pop nordamericana, la più lucrosa della sua intera carriera. Un’altra prova di come una melodia possa cambiare destino una volta lasciata libera di attraversare lingue, sensibilità e continenti.

Gipsy Kings – “Bamboléo” (Francia, 1987) → Simón Díaz – “Caballo viejo” (Venezuela, 1980)

simo769ndi769azesimagendeunamarcadechicha2Quando esce “Bamboléo”, nel 1987, i Gipsy Kings diventano all’improvviso sinonimo di fiesta mediterranea: chitarre veloci, palmas a raffica, un’energia gitana che sembra arrivare direttamente da un cortile assolato tra Arles e Perpignan. Il brano prende fuoco in Europa e poi nel resto del mondo, portando con sé un immaginario fatto di gonne ampie, danze improvvisate, un’idea di spontaneità che diventa marchio di fabbrica del gruppo. Per molti ascoltatori occidentali è l’essenza stessa della rumba flamenca, una di quelle canzoni che sembrano esistere da sempre. 
Ma la sua origine sta altrove.  Bisogna attraversare l’Atlantico e scendere in Venezuela, dove nel 1980 il grande Simón Díaz pubblica “Caballo viejo”. Díaz è una figura centrale della musica latinoamericana, un cantautore raffinato, maestro del folklore llanero, capace di trasformare la tradizione rurale in una forma moderna e universale. “Caballo viejo” è uno dei suoi capolavori: una melodia sinuosa, un ritmo di joropo che oscilla tra dolcezza e urgenza, e un testo che racconta il desiderio improvviso di un uomo anziano colpito da una passione inaspettata. Un inno popolare, amatissimo in tutto il mondo ispanico.
I Gipsy Kings si appropriano della struttura melodica del brano, la accelerano, la vestono di chitarre percussive, aggiungono una sezione testuale nuova e un impianto ritmico da festa gitana. Nasce così “Bamboléo”, che conserva l’impronta del tema venezuelano ma la trasforma in qualcosa di altro. La parte più contagiosa del brano – quella linea vocale che tutti identificano come “tipicamente Gipsy Kings” – arriva dritta dalla penna di Simón Díaz, anche se la sua presenza resta quasi invisibile nella cultura pop occidentale.

Kaoma – “Lambada” (Francia, 1989) → Márcia Ferreira–“Chorando Se Foi” (Brasile,1986)→ Cuarteto Continental – “Llorando se fue” (Perù, 1984) → Kjarkas – “Llorando se fue” (Bolivia, 1981)

daf0b4d4c900aee2d0e08bc1ddde4980.800x800x2Siamo nella torbida estate del 1989: non c’è festa da ballo, spiaggia affollata o pista improvvisata che non venga travolta dal ritmo sensuale della “Lambada”. È ovunque, come se fosse sbucata dal nulla, portando con sé un immaginario tropicale che sembra disegnato su misura per i videoclip di fine anni Ottanta: gonne a ruota, ombrelloni sgargianti, una brasilianità patinata e televisiva. La maggior parte del pubblico occidentale pensò davvero che fosse nata così, un’esplosione estiva senza passato. Ma quel colpo di cintura che travolse mezzo pianeta aveva una vita precedente, lontanissima dalle spiagge brasiliane: nasce quasi dieci anni prima fra le montagne della Bolivia, dove i Kjarkas incisero “Llorando se fue” (1981).
È una band fondamentale per la musica andina moderna: eleganti, impeccabili nella scrittura melodica, capaci di portare charango, zampoña e ritmo huayño in un formato pop sofisticato e orgogliosamente radicato nella tradizione quechua. “Llorando se fue” non è un twist da spiaggia: è una saya andina malinconica, un canto di abbandono, con una melodia intrecciata e una grazia armonica che pochissimi gruppi sudamericani dell’epoca erano in grado di raggiungere. Per molti boliviani, i Kjarkas sono — semplicemente — una delle band migliori e più influenti che il paese abbia mai avuto.
Ma prima ancora che Kaoma la trasformasse nel fenomeno mondiale che conosciamo, la canzone aveva già iniziato un suo viaggio di metamorfosi. Nel 1984 il gruppo peruviano Cuarteto Continental pubblicò un’arrangiamento più veloce e festoso, introducendo l’uso della fisarmonica: una versione che ebbe grande diffusione nei circuiti di cumbia e che fornì proprio la base ritmica e stilistica che Kaoma avrebbe poi ripreso quasi integralmente. Due anni dopo, nel 1986, la cantante brasiliana Márcia Ferreira incise la prima versione in portoghese, “Chorando Se Foi”, che adattava il testo e reimmaginava il brano come una canzone da baile tropicale. Fu quella la versione che, tra Bahia e Porto Seguro, cominciò a legarsi al nascente genere lambada. Ed è proprio in Brasile che entra in scena la componente francese della storia.
Nel marzo del 1988, durante un viaggio a Porto Seguro, i manager parigini Olivier Lamotte d’Incamps (Olivier Lorsac) e Jean Georgakarakos (Jean Karakos) scoprono la scena lambada locale e rimangono folgorati da “Chorando Se Foi”. Convinti di avere tra le mani la base per un nuovo fenomeno globale, acquistano i diritti di oltre 400 canzoni lambada dal catalogo della casa editrice brasiliana Continental. Tornati in Francia, assemblano musicisti dal Brasile, dall’Africa e dai Caraibi, e danno vita al progetto Kaoma.
Il resto è storia:i produttori velocizzano ulteriormente il brano, lo caricano di percussioni, lo rivestono di scenografie bahiane e — soprattutto — omettono inizialmente ogni riconoscimento ai Kjarkas. “Lambada” nasce così: più diretta, più commerciale, una hit immediata e planetaria. E un furto dichiarato.
La causa legale intentata dai Kjarkas diventa un caso emblematico: la band boliviana vince, ottiene riconoscimento e risarcimento, e la verità affiora. Quel ritornello che tutti associano al Maracanã o a Rio non è nato in Brasile, ma a Cochabamba. E la melodia struggente che si ballava dappertutto non parlava di seduzione, ma di un amore perduto, di qualcuno che se n’è andato “piangendo”.

Natalie Imbruglia – “Torn” (Australia, 1997) → Trine Rein – “Torn” (Norvegia, 1996) → Ednaswap – “Torn” (Usa, 1995) → Lis Sørensen – “Brændt” (Danimarca, 1993)

ab67616d0000b2735b65ba644bf1c139af462b0eCi sono canzoni la cui storia è semplice, lineare, quasi ovvia. “Torn” non è una di queste. Quando Natalie Imbruglia la portò al successo mondiale nel 1997, molti pensarono che fosse un singolo originale, un gioiello pop sbucato fuori da un debutto promettente. In realtà Imbruglia fu solo l’ultima di una catena di versioni che avevano fatto il giro del Nord Europa prima di approdare ai radar internazionali. Tutto comincia nei primi anni Novanta, quando Scott Cutler e Anne Preven degli statunitensi Ednaswap, insieme al produttore britannico Phil Thornalley, scrissero “Torn” in forma di demo. La band non aveva ancora un contratto discografico, nessuna uscita all’orizzonte. La canzone esisteva solo come intuizione, un embrione di malinconia grunge che aspettava di trovare una voce.
A quel punto entra in scena la Danimarca. Il produttore Poul Bruun ascoltò la demo e decise che quella melodia era perfetta per Lis Sørensen, già figura centrale del pop scandinavo. Poiché gli Ednaswap non avevano la possibilità di pubblicare il brano, autorizzarono la prima incisione al mondo. Così, nel 1993, nacque “Brændt”: testo danese firmato da Elisabeth Gjerluff Nielsen, arrangiamento tipico del pop rock radiofonico dei primi anni Novanta. Non è “Torn”, eppure lo è: stessa melodia, stessa ossatura, un’altra lingua.
Solo nel 1995 gli Ednaswap riuscirono finalmente a pubblicare la loro versione. E qui arriva lo scarto più sorprendente: “Torn” in origine è un brano lento, cupo, quasi grunge, con un’atmosfera angosciata che nulla ha a che vedere con la levità pop della versione diventata celebre. È la canzone nella sua forma nuda, fragile, abrasiva.
Poi, nel 1996, la norvegese Trine Rein ne fece una rilettura più morbida, riportandola in territorio pop e facendo da stampo per la hit successiva.
Natalie Imbruglia arrivò per ultima. Nel 1997 registrò “Torn” con lo stesso coautore della versione originaria, Phil Thornalley, riprese l’impianto della versione norvegese e lo portò a compimento: ritmo più brillante, chitarre acustiche leggere, una voce che trasforma il dramma in un sorriso amaro. Il risultato fu un successo planetario, destinato a oscurare completamente le altre tappe della cronologia.

ATC – “Around The World (La La La La La)” (Germania, 2000) → Ruki Vverh! – “Pesenka” (Russia, 1998)

unnamed2Alla fine degli anni Novanta l’eurodance era un universo parallelo: luci al neon, coreografie irreali, ritornelli concepiti per restare incastrati in testa per mesi. In mezzo a questo mondo ipercolorato, nel 2000 arrivò “Around The World” degli Atc (A Touch Of Class), un quartetto italo–tedesco che sembrava uscito da una pubblicità di bevande energetiche. Il brano conquistò immediatamente l’Europa: radio, discoteche, spiagge, autobus scolastici. Era uno di quei tormentoni che non circolano soltanto, ma colonizzano.
Ma l’idea non nasce in Germania: tutto comincia a Mosca, nel 1998, quando il duo Ruki Vverh! pubblicò “Pesenka”. Il nome significa letteralmente “Mani in alto!” e la band – formata da Sergej Žukov e Aleksej Potėchin – fu uno dei fenomeni del pop russo di fine anni Novanta: melodie immediate, synth pastello, un’aria da festa di periferia che si trasformò rapidamente in culto nazionale. Erano lontani dall’eurodance patinata occidentale: più domestici, più spontanei.
Gli Atc non cambiarono quasi nulla. Presero la stessa melodia di “Pesenka”, la tradussero, le diedero una lucidatura da studio internazionale e la rilanciarono sul mercato europeo. Il risultato diventò più brillante, più rapido, più “globale” – e soprattutto destinato a oscurare completamente l’originale russo, rimasto un classico dell’ex Urss ma invisibile alle orecchie occidentali.
Perché questa differenza di fortuna? In parte per il suono — gli Atc amplificano l’aspetto bubblegum e attenuano la vena malinconica dei Ruki Vverh! — ma soprattutto per la percezione: agli occhi (e alle orecchie) dell’Occidente, Around the World sembra un prodotto perfetto del mercato europeo, costruito a tavolino. Nessuno immaginerebbe che provenga da un duo russo che girava con giacche di pelle e occhiali scuri, senza alcuna vocazione per il pop globale. Ascoltare oggi “Pesenka” è un piccolo shock: è la stessa canzone, ma con un respiro diverso, più lento, più intimo, più “slavo” nel modo migliore.

The Chemical Brothers – “Galvanize” (Uk, 2004) → Najat Aâtabou – “Hadi Kedba Bayna” (Marocco, 1992)

getattachment22aspx.jpegQuando “Galvanize” esce, a fine 2004, sembra il manifesto di una nuova fase per i Chemical Brothers. Meno big beat, più groove ipnotico, quella cassa marziale che avanza senza fretta e la voce di Q-Tip a fare da guida dentro un paesaggio sonoro denso, notturno, urbano. Ma la vera protagonista del brano non è né la batteria né il rap: un tema orchestrale arabeggiante che sembra arrivare da un’altra epoca, da un altro mondo.
Quella melodia viene dal Marocco, dal repertorio di Najat Aâtabou, una delle grandi interpreti della musica chaabi, che nel 1992 incise “Hadi Kedba Bayna”. Il brano, costruito su un andamento medio–veloce e su un giro di archi e percussioni tipico del chaabi elettrificato di quegli anni, mette al centro un ritornello in cui la cantante affronta a viso aperto il tema del tradimento e della menzogna maschile. È una canzone popolare e potente, con una forza melodica tale da imporsi ben oltre il proprio contesto geografico.
I Chemical Brothers non fanno una cover in senso stretto: non riscrivono il pezzo, non ne traducono il testo, non ne ricantano la melodia. Prendono però un frammento fondamentale di “Hadi Kedba Bayna” – la cellula melodica che apre il brano di Najat Aâtabou – e lo trasformano nel cuore pulsante di “Galvanize”. Quel sample non è un dettaglio di colore: è l’ossatura stessa del pezzo, il suo hook principale, ciò che gli dà identità e riconoscibilità immediata. Il resto del brano – beat, basso, synth, rap di Q-Tip – ruota attorno a quella linea come se fosse un mantra.
Per questo “Galvanize” sta in una zona grigia interessante: tecnicamente è un brano originale basato su un campionamento autorizzato, ma dal punto di vista dell’ascolto si comporta quasi come una riscrittura elettronica di Najat Aâtabou. L’Occidente scopre quel giro come se fosse una trovata esotica dei Chemical Brothers, mentre in Marocco e nella diaspora maghrebina il richiamo a “Hadi Kedba Bayna” è immediato e inequivocabile.
Riascoltata oggi, la traccia di Najat Aâtabou mostra quanto il pezzo dei Chemical Brothers si appoggi alla sua forza melodica: gli archi incalzano, la voce si muove tra orgoglio ferito e sfida, il ritmo chaabi costruisce una tensione che la produzione elettronica inglese, in fondo, si limita a tradurre in un altro linguaggio.

Shakira – “Waka Waka (This Time for Africa)” (Usa, 2010) → Golden Sounds – “Zangaléwa” (Camerun, 1986)

goldensoundslaterzangalewawasstartedbypresidentialguardsofcamerooneventhoughDifficile immaginare un brano più onnipresente di “Waka Waka” nell’estate del 2010: l’inno dei Mondiali, il ritornello urlato negli stadi, il balletto copiato in milioni di video amatoriali e l’ennesima conferma del potere pop di Shakira. Eppure, dietro quell’hook che sembra nato per i maxi-schermi del Sudafrica, c’è una storia molto più lunga e molto lontana.
L’origine è nel Camerun di metà anni Ottanta, quando un gruppo allora chiamato Golden Sounds – formato in gran parte da membri della Guardia Presidenziale, alcuni dei quali avevano prestato servizio militare già durante la Seconda Guerra Mondiale sotto il dominio francese – incide Zangaléwa. Il brano che dura 11 minuti è un ibrido irresistibile di makossa (un genere il cui nome, in lingua douala, significa “danza”), canto di marcia e comicità slapstick. Le loro esibizioni erano un teatro satirico: uniformi esagerate, elmetti coloniali, panciere imbottite, baffi finti per ridicolizzare i soldati “di pancia piena” e le autorità post-coloniali. Una forma di critica politica camuffata da intrattenimento popolare.
È in questo contesto che nasce il celebre ritornello – “Zamina mina hé hé / Waka waka éé é / Tsamina mina zangaléwa” – che mescola fang, ewondo, pidgin inglese e francese. Le parole hanno significati piuttosto chiari: “zamina mina / tsamina mina” significa “vieni, vieni”, “waka waka” è un invito all’azione (“fai, lavora, vai avanti”), mentre “zangaléwa” è una domanda tipica del contesto militare camerunense che si può rendere come “chi ti ha mandato?” o “chi ti ha chiamato?”. È un linguaggio nato nella vita quotidiana delle caserme, che nella canzone diventa un richiamo collettivo, ritmico e ironico allo stesso tempo.
Il brano esplode in tutto il Camerun e, negli anni Novanta, circola anche in Colombia, dove i dj locali lo chiamano informalmente “The Military”: non una cover, ma il nome con cui la canzone veniva riconosciuta e fatta girare nei set afro-caraibici. È probabilmente in questo circuito che Shakira – direttamente o indirettamente – ne venne in contatto.
Quando Sony e Shakira utilizzano quel ritornello come base per l’inno dei Mondiali del 2010, però, i Golden Sounds non vengono inizialmente né accreditati né compensati. Ze Bella, frontman del gruppo, raccontò di aver scoperto l’esistenza di “Waka Waka” grazie alla telefonata di un amico francese. Solo dopo una campagna pubblica condotta da ascoltatori e giornalisti camerunesi, le parti avviarono una negoziazione che portò a un accordo privato.
Nel frattempo “Zangaléwa” compiva l’ennesima metamorfosi: da satira militare camerunese a colonna sonora planetaria, e poi ancora a meme virale su TikTok e Instagram, usato per video di cani, sketch comici e highlight calcistici. Un destino imprevedibile per una canzone nata per irridere il potere.
Ascoltata oggi, l’originale resta più cruda, più teatrale, più viva: un inno comunitario che nessuna produzione pop potrà mai addomesticare davvero.
Eppure l’originale resta lì, più crudo e più vivo, con la sua energia collettiva, i cori da piazza e quella gioiosa sfacciataggine che nessuna produzione pop potrà mai replicare davvero.

J Balvin & Willy William – “Mi gente” (2017) → Akassh & Kona – “Heila Duila Nach” (Bangladesh, 2016)

51225b3395b35a6412a6a8a71d563646.300x300x1L’estate 2017 ha un suono preciso: quello di “Mi Gente”, il brano che trasforma J Balvin e Willy William in un fenomeno planetario. Sembra l’ennesima consacrazione del reggaeton: un beat che ti entra nelle ossa, la produzione scintillante di Willy William, la voce di J Balvin che trascina anche chi non ascolta mai musica latina. Il brano diventa uno dei singoli più ascoltati dell’anno, valica ogni confine linguistico e arriva persino all’orecchio di Beyoncé, che decide di farne un remix destinato a conquistare le classifiche mondiali.
Ma quel ritmo ipnotico, quella base elettronica, quel suono così riconoscibile… non nascono nel mondo latino. La traccia originale è bengalese. Nel 2016, un anno prima del successo internazionale, il produttore, compositore e cantante Akassh pubblica assieme alla cantante/attrice Kona, “Heila duila nach” all’interno della colonna sonora del film “Ami tomar hote chai”, brano che circola nella scena pop del Bangladesh: base elettronica quasi identica, progressione armonica simile, lo stesso hook sintetico che diventerà il marchio di “Mi gente”. È un pezzo pensato per far ballare, costruito su un’idea di Edm ultraminimalista che guarda più all’Europa che al subcontinente indiano, ma che mantiene quella scioltezza ritmica tipica del pop bengalese.
Quando Willy William ascolta il brano, riconosce la forza della traccia. Ne riutilizza l’ossatura  – in alcuni punti quasi senza modificarla – e costruisce la base di “Mi gente”, che poi J Balvin trasformerà nel fenomeno che conosciamo. Non è una cover in senso stretto: il testo cambia, la struttura vocale è completamente nuova, l’estetica passa dal pop bengalese al reggaeton globale. Ma la colonna vertebrale del pezzo resta quella di “Heila duila nach”: sintetizzatori, progressione, groove.

14/12/2025




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