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Andrea Laszlo De Simone – biografia, recensioni, streaming, discografia, foto :: OndaRock


Il 2025 ci ha confermato che l’universo cantautorale italiano è ben più fertile di quanto possa apparire a una lettura superficiale. Se indubbiamente latitano figure forti, in grado di scalfire la dittatura del rap nostrano in ambito mainstream (o pseudo-indie), non mancano, invece, personalità talentuose, che si sono ritagliate in questi anni preziose nicchie underground. Il nome di punta di questo brulicante sottobosco è senz’altro quello – lunghissimo – di Andrea Oliviero Laszlo De Simone Saccà, per gli amici semplicemente Andrea Laszlo De Simone. Un corpo estraneo alla musica italiana di oggi, in fondo, ma forse anche per questo uno dei suoi esponenti migliori. Tre album più un Ep, uniti a una manciata di suggestive performance live, hanno alimentato un culto tra i più potenti della scena nazionale contemporanea, tenuto vivo dalla personalità carismatica ma profondamente schiva di questo gentiluomo dell’inquietudine, refrattario alle luci della ribalta e dedito a un approccio artigianale, nonché molto personale, alla composizione.
Ma poiché resta sempre valido – soprattutto in Italia – il detto “nemo propheta in patria”, sono dovuti arrivare i francesi, con l’assegnazione di un prestigioso Premio César nel 2024, a spiegarci che forse custodivamo in casa un nuovo fuoriclasse. Ricostruiamo allora la prodigiosa ascesa del baffuto cantastorie piemontese partendo dai suoi esordi, nascosti dietro i tamburi di una band di nome Nadàr Solo.

Ecce Uomo, Donna

Andrea Laszlo De Simone nasce a Torino il 18 febbraio 1986. Appassionato di musica fin dall’infanzia, mostra subito un approccio autodidatta e riservato. Compone, suona e produce quasi sempre in autonomia, lavorando soprattutto in casa e privilegiando un clima di isolamento creativo. Nel corso del tempo esplora soluzioni produttive molto diverse tra loro, dall’elettronica alle forme vicine alla musica classica, integrando di volta in volta strumentisti scelti per le fasi conclusive degli arrangiamenti.
La prima esperienza vera e propria, però, non è da solista, bensì in veste di drummer nei Nadàr Solo, formazione in cui era presente anche il fratello Matteo, voce e leader del gruppo. Suona inoltre nel duo torinese Anthony Laszlo insieme al suo grande amico Anthony Sasso, ex-chitarrista e cantante dei Milena Lovesick. Ma non è quello il suo habitat naturale e così Andrea Laszlo inizia a maturare l’idea di comporre e produrre musica in proprio.

Il debutto da solista arriva nel 2012 con il disco autoprodotto Ecce Homo, progetto fortemente sperimentale che richiama nel titolo l’opera omonima di Friedrich Nietzsche. Il disco, registrato in solitudine nella proverbiale cameretta con mezzi di fortuna, si presenta con una qualità volutamente compressa e un lavoro approfondito di post-produzione, che ha incluso anche il trasferimento su nastro magnetico per ottenere una resa sonora più calda e autentica.
Attraversato da una straniante vena psichedelica, Ecce Homo oscilla tra confessione, ironia e un’urgenza espressiva che trova nei dettagli sonori la sua vera cifra. Le canzoni funzionano come fotografie imperfette ma sincere, a partire dall’iniziale e scalpitante “I nostri piccoli occhi”, all’insegna di una sorta di cantautorato lo-fi stralunato, che occhieggia un po’ a Enzo Carella e Lucio Battisti. L’elettronica pulsante di “Il buco nero”, “È colpa mia” e della stessa title track riporta invece dalle parti dei Bluvertigo (o del Battiato riletto da Morgan e compagni), tra tastiere plasticate, rintocchi stranianti e versi nonsense.
“La causa delle intenzioni” lavora sul registro più classicamente cantautorale, con riff di chitarra nevrotici ad assecondare il cantato di De Simone e la batteria che va e viene in un saliscendi surreale, mentre in “Good Goodbye” l’inglese resta solo nel titolo, lasciando spazio a un altro bozzetto surrealista scandito da ritmiche sghembe e irregolari.
Affiorano anche i primi embrioni di quell’inconfondibile format-ballata vintage che Laszlo avrebbe sviluppato più compiutamente in seguito, facendone uno dei tratti distintivi del suo cantautorato: “Perdutamente” ne è già un saggio affascinante, con la sua voce filtrata persa nel vuoto e l’andatura sognante scandita dai rintocchi delle tastiere, mentre i versi taglienti di “Spostamento per inerzia” denotano già quella formidabile abilità autoriale che negli anni ha portato a testi tra i più suggestivi della canzone italiana recente.

Voler essere ricco
È sciocco
I soldi: un labirinto
Da allocco
Se quello che possiedi
Dopo il decesso
Torna da solo
Al proprio posto
 
La morte non esiste
La morte non esiste
Esiste per chi è vivo
E io sono vivo
 
Ed anche il sogno non esiste
Ma chi non ha mai sognato sembra triste

La seconda parte del disco accentua i toni sperimentali, all’insegna di un’elettronica frammentata alla Radiohead periodo “Kid-A”-“Amnesiac”, pur restando sostanzialmente nell’alveo della forma canzone. “In aderenza” è un’altra scheggia impazzita di cantautorato in bassa fedeltà (e alta creatività), tra cori stranianti e l’intrico serrato di tastiere e chitarre a costruire un arrangiamento ficcante, mentre il canto filtrato e distorto di “Rasségnati” finisce inghiottito dentro un vortice di tastiere, sfociando nell’altra gemma “Sola”, un mantra elettronico degno del Battisti del periodo bianco. Le due tracce conclusive (“Senza peso” e “Felice”) chiudono il disco su tonalità sempre più dissonanti e oniriche, tra cori infantili e versi lapidari come “Felice di non esserne certo”. È un finale che restituisce l’immagine di un autore consapevole dei propri limiti (di mezzi a disposizione, anzitutto) ma determinato a trasformarli in un linguaggio personale.
Ecce Homo è un esordio decisamente grezzo, ma offre già un efficace autoritratto dello stile di De Simone. Più che un “disco minore”, è il documento di un autore che si costruisce da solo il proprio lessico, partendo da un’istanza esistenziale forte e affidandola a un suono volutamente imperfetto. Dietro la produzione ruvida e scarna, infatti, si nascondono scelte precise, un modo di costruire l’emozione dentro la forma canzone che anticipa la maturità dei lavori successivi. È un album dove nulla è ancora definitivo, ma tutto è già profondamente personale.

Dopo aver pubblicato alcuni videoclip (“Solo un uomo”, “11:43”, “I nostri piccoli occhi”), all’inizio del 2014 De Simone incontra alcuni attivissimi musicisti della scena underground torinese e da mesi di sala prove esce una vera e propria band: Damir Nefat (chitarra), Daniele C (basso e cori), Filippo Cornaglia (batteria), Zevi Bordovach (tastiere) e l’immancabile amico Anthony Sasso (cori e percussioni). È il preludio alla nascita dell’album che svelerà finalmente il talento di De Simone: un piccolo prodigio indie italiano, nascosto sotto un paio di ingombranti baffi alla Frank Zappa.

Il disco si intitola Uomo, Donna (2017) e mostra affinità elettive impressionanti con alcuni colossi della canzone italiana. Prendete, ad esempio, la seconda traccia “Sogno l’amore” e pensate se vi è mai capitato finora di imbattervi in un artista in grado di arrivare così tanto vicino a Lucio Battisti. Spostando il lettore al brano iniziale, non sarà invece difficile notare quanto la title track rimandi all’epoca del miglior prog italiano, una sorta di celebrazione del percorso che fu de Le Orme.
Come il titolo suggerisce, i testi narrano di interrelazioni fra uomo e donna, raccontando le mille sfaccettature dell’amore: inseguito e raggiunto, inventato o reale, spesso al capolinea, sofferto, incenerito e sotterrato. Tutto è scritto in maniera semplice, come si trattasse di filastrocche impregnate di sentimento.
Frequenti – forse troppo, a dire il vero – gli intermezzi posti fra le canzoni, delineati con l’ausilio di violini, pianoforti, suoni ambientali e rumorismi assortiti, che intendono non di rado evocare situazioni campestri, avvicinandosi persino a strutture che rimandano ai Radiohead: non sarà un caso se “Sparite tutti”, la canzone conclusiva, ha tutta l’aria di una diretta replica alla “How To Disappear Completely” di “Kid A“.
Non mancano frangenti più aggressivi, dove la musica di De Simone vira consapevolmente verso l’alt-rock tricolore: “Vieni a salvarmi” e la ballad obliqua “Meglio” fanno pensare ai Verdena, mentre la sana spensieratezza de “La guerra dei baci” si sposta verso lidi sixties simil-surf.
Se “Solo un uomo” rappresenta il manifesto della finitezza dell’essere umano in vita, “Eterno riposo” ci rapporta invece col momento della morte (che sia di un amore, di un’amicizia o di una vita intera poco importa) raccordando Wilco e Battisti, il quale resta il riferimento più naturale dell’intero lavoro.
Potenziali singoli come “Fiore mio”, che a sorpresa diverrà davvero un tormentone su TikTok!, e bozzetti acustici registrati fra cameretta e giardino (“Che cosa”) completano un menù ricco, che supera abbondantemente i settanta minuti di durata.
Nonostante alcuni momenti possano apparire ridondanti (“Questo non è amore”), trascinandosi in maniera un tantino prolissa (vedi i primi cinque minuti della lunghissima “Gli uomini hanno fame”), Uomo, Donna si impone come lavoro piacevolmente debordante e, in molti passaggi, imprevedibile, nel quale Andrea pesca idee dal passato ricontestualizzandole nel presente con grande naturalezza, qualificandosi come una delle firme più singolari e intriganti dell’attuale panorama indipendente italiano.

Oltre l’Immensità

Invece di capitalizzare il risultato, però, l’artista torinese prepara un’altra mossa spiazzante. A oltre due anni dall’importante affermazione ottenuta con Uomo, donna, pubblica infatti un nuovo progetto, Immensità (2019), che pare quasi un lavoro d’altri tempi. Non solo per l’attitudine sonora, inequivocabilmente debitrice nei confronti degli anni 60 e 70, ma anche per la struttura dell’opera. Un disco che può essere ascoltato in due modalità distinte: soltanto le quattro tracce portanti, separate, canzone per canzone, oppure attraverso un viaggio di 25 minuti nel quale i brani si fondono fra loro fino a creare una suite, arricchita da un preludio, tre interludi e una conclusione.
Il punto di riferimento prevalente resta Lucio Battisti, ma questa volta emergono con forza anche parecchie influenze internazionali: se ne “Lo spazio” si scorgono rimandi neanche troppo velati ai Radiohead di “How To Disappear Completely“, ancor più volontaria appare la connessione fra l’arpeggio di “Conchiglia” e i Portishead di “The Rip“. Prossimità importanti, piccoli omaggi resi da una personalità in costante crescita, che non teme il confronto con gli intoccabili, ingombranti per chiunque. La sensazione è simile a quando in Italia si traducevano i grandi successi internazionali, anche se De Simone riesce a trasmutare il tutto a propria immagine e somiglianza, senza alcuna paura di inciampare.
Siamo lontani anni luce da tanta tappezzeria musicale dei nostri tempi: qui si torna a una modalità di fruizione antica, a uno spirito di produzione artigianale. Fra effetti cosmici, dilatazioni prog, spolverate d’archi e derive folk, “Immensità” è un disco che conferma l’imprevedibilità di un cantautore fra i più singolari e intriganti dei nostri giorni, bravissimo a pescare buone idee dal passato e a ricontestualizzarle nel presente. Soltanto quattro tracce, ma tutte di grandissimo valore.

Un anno dopo, De Simone fa uscire il singolo “Dal giorno in cui sei nato tu”, canzone dedicata ai suoi figli, supportata da un video in super8 realizzato dal primogenito Martino.
Ma il vero colpo da ko giunge qualche mese dopo, nel gennaio del 2021, con la splendida ballata “Vivo”, accompagnata dalla piattaforma omonima animata da live-cams in diretta da tutto il mondo, il suo primo vero lavoro di produzione presso il nuovo studio Ecce Homo. “Vivo” non è solo la perfetta rielaborazione di quello stile da ballata anni 50-60 abbozzato già agli esordi. È una nuova, meravigliosa canzone italiana, che di quella stagione di crooner malinconici e night-club in penombra riesuma lo spirito, aggiornandolo però con una sensibilità moderna. Come se una nuova “Amore che vieni amore che vai” fosse uscita all’improvviso da qualche vecchio nastro di Fabrizio De André, interpretata con uno stile profondamente diverso. Di pari, luminosa bellezza, sono invece versi come:

Lo so bene
La vita è breve e pure stretta
Ma la tua mente è una gran sarta
Che cuce in fretta
Il tempo di una sigaretta
Che fa bene
A chi ha la luna maledetta
E dalla vita non si aspetta
Che sia perfetta
Si gode quello che gli spetta
Perché si muore troppo in fretta

Ad assecondarli, è una progressione lenta, quasi liturgica, con gli archi che plasmano un sottile crescendo, mentre la voce filtrata di De Simone sembra provenire da un’altra dimensione, da un passato quasi ancestrale. Uno sfasamento straniante che non è solo frutto di un mero escamotage tecnico, ma affonda le radici nell’infanzia, quando il piccolo Andrea Laszlo cantava nel microfono distorto del Canta Tu: “Era un karaoke con due casette su cui registrare. A cinque, sei anni registravo tutto il tempo, tanto da consumare i nastri. Ho sempre sentito la mia voce in quel modo e ci sono affezionato. È una linea temporale parallela, che mi unisce al me bambino e mi ricorda che sono sempre la stessa persona. Quel filtro mi protegge. Per inclinazione personale, tendo a spostare la musica in un contesto magico e parallelo all’esistenza, come se fosse su una linea temporale che ci passa giusto accanto. Mi piace che la musica venga da lì e mi piace che dialoghi con questo mondo qua, ma che non ne faccia pienamente parte”, rivelerà.

Fin qui, insomma, il percorso di Andrea Laszlo è segnato da una forte coerenza poetica e da una costante evoluzione sonora. Ma c’è un filo invisibile che lega tutti i suoi lavori “ed è un filo in parte concettuale”, sostiene. “Un certo idealismo, un certo esistenzialismo di cui non posso fare a meno. E parallelamente ci sono le mie riserve nei confronti dell’esposizione”.
Alla fine di agosto 2021, l’artista torinese torna dal vivo con l’Immensità Orchestra: solo tre concerti a Torino per TOdays festival, a Roma nella Cavea dell’Auditorium Parco della Musica e a Bari, davanti alla Basilica di San Nicola, per Locus festival. In occasione di queste tre date, annuncia la sospensione dell’attività live “a tempo indeterminato” per continuare a dedicarsi alla famiglia e concentrarsi sulla composizione musicale. Un’attività che inizia a sposarsi efficacemente con il cinema, come dimostra la sua prima colonna sonora originale, quella per il film “Promises” di Amanda Sthers, presentato nell’ottobre 2021 alla Festa del Cinema di Roma.

Nel 2022 esce invece il singolo “I nostri giorni” accompagnato da un video musicale diretto da Donato Sansone ed Enrico Bisi e seguito dal libro fotografico “Vivo/I nostri giorni”. Si tratta del secondo incontro artistico tra padre e figlio e contiene i fotoritratti in pellicola scattati da Luciano De Simone negli anni 70, oltre al 45 giri con due brani da ascoltare sfogliando le pagine in bianco e nero del libro.

Il figlio di Francia

Un anno dopo Andrea Laszlo De Simone viene chiamato a un prestigioso incarico: realizzare la colonna sonora del film francese Le Règne Animal di Thomas Cailley, presentato in concorso nella sezione Un Certain Regard alla 76ª edizione del Festival di Cannes. Quello che lega l’artista torinese alla Francia è un legame che si è venuto sviluppando lungo coordinate in gran parte spontanee. Non c’è neanche da soffermarsi a indagare sulle ragioni di una tale “corrispondenza d’amorosi sensi”. Canzoni come “Conchiglie”, o “Dal giorno in cui sei nato tu” hanno conquistato il cuore dei francesi col loro modo schivo, puro, disarmante di esprimere un’ampia tavolozza del sentire, felicità compresa. Grazie al loro impatto sul pubblico transalpino, De Simone viene così coinvolto nell’opera di Calley, uno dei nomi di punta del cinema francese di ultima generazione.

Dopo l’incensatissimo “Les Combattants” (uscito in Italia col titolo “The Fighters – Addestramento di vita”), Premio César 2015 come migliore opera prima, Cailley è tornato finalmente a cimentarsi con una regia cinematografica. Il film, pur avendo ottenuto 12 nomination al Premio César, non è stato questa volta all’altezza delle legittime aspettative, nonostante la grande bravura della giovane promessa Paul Kircher e quella appena più calligrafica della star transalpine Romain Duris e Adèle Exarchopoulos, e nonostante l’immane impegno creativo e concettuale dello stesso Cailley. “Le Règne animal” ha dovuto vedersela con una macchina da guerra come “Anatomia di una caduta”, perfettamente soppesato per un successo internazionale, che si è infatti puntualmente verificato.
A “Le Règne animal” è però andato proprio l’ambito premio per la migliore colonna sonora di De Simone, facendone il primo italiano a vincere gli oscar del cinema d’oltralpe, e a giusta ragione, perché si tratta di una partitura di grande pregio. Anche se le musiche sono state rese disponibili sia sulle piattaforme digitali, sia su supporto fisico (in Italia per 42 Records e nel resto del mondo per Ekleroshock), è l’ascolto in simultanea con le immagini a rivelarne tutto il fascino e l’intensità. Le immagini scorrono e una piccola orchestra di archi, strumenti a fiato e voci, sostenuta da tastiere di sapore vagamente kraut, dà vita a una sorta di esperienza sensoriale. Natura nella natura. L’autore deve aver lavorato totalmente a servizio della pellicola, per sottrazione, alla ricerca dell’innocenza primigenia dell’ispirazione e del racconto.

“Il Regno animale” è un film visionario, ambizioso, denso di significati. Vi si intrecciano grammatiche differenti, che vanno dal fantasy al dramma e passano con disinvoltura dai ritmi incalzanti del thriller a quelli insistiti dell’introspezione. Il sottotesto filosofico della necessità ineluttabile, al contempo spaventosa e liberatoria, di una regressione, quasi metamorfica, dell’umanità allo stadio animale si intreccia col linguaggio teso della visceralità espressiva. Ne scaturisce una narrazione sbilanciata, imperfetta, continuamente esposta al rischio della sovrabbondanza, a cominciare dai suoi 128 minuti di durata. La musica di Andrea Laszlo Simone dischiude scenari emotivi coinvolgenti, ingrandisce la verde ampiezza degli esterni, accentua lo spessore degli sguardi. E così il regno animale prende forma, capace di parlare all’inconscio di ciascuno e al noi collettivo che si spera possa ancora scaturirne.
Nel film, l’umanità è immersa nel caos e assiste al risveglio del suo lato animale. L’intensità di questa storia di fantasia risiede in un viaggio emotivo, al tempo stesso divertente e commovente, tra un padre e suo figlio. Il compositore ci mette la sua firma, fondendo elementi acustici, elettronici e classici. Il risultato è una composizione musicale potente, condotta sulla tonalità del film, sul suo naturalismo e sulla narrazione di una mitologia universale. “L’amico ed editore francese Raphael Hamburger ha sottoposto alla mia attenzione la sceneggiatura di un film scritta da Thomas Cailley e Pauline Munier: ‘Le Regne Animal’ – ha raccontato De Simone – Leggendola mi sono reso conto che racchiudeva la maggior parte degli argomenti che mi hanno mosso e motivato negli ultimi anni: il rapporto padre figlio (che la vita mi ha permesso di indagare sia da figlio che da padre), l’essere umano inteso come creatura, come animale al cospetto di una realtà che appare ineluttabile; la società come habitat e come catena, il rapporto con la diversità, la paura che può tradursi in stupore, meraviglia, ostilità, fobia; la trasformazione dei nostri corpi e delle nostre identità attraverso il tempo e le vicende che la vita ci impone. In poche parole, per me, in questa sceneggiatura c’era il mondo”, ha aggiunto l’artista piemontese, che dopo aver registrato personalmente la musica, ha scritto gli arrangiamenti per una piccola orchestra di archi, strumenti a fiato e voci. Alla fine della lavorazione, De Simone ha aggiunto anche una title track, che, pur non presente nel film, è stata inserita ugualmente in calce alla colonna sonora.

Dopo questo successo internazionale, De Simone si ritira nei suoi studi, dai quali a sorpresa, alla fine di agosto del 2025, esce un nuovo singolo, “Quando”, antipasto del suo prossimo lavoro in studio. “‘Quando’ rappresenta un momento di smarrimento, in cui la mente cerca giustificazioni per errori e contraddizioni”, ha spiegato l’artista torinese. “È la fase che precede l’assunzione di responsabilità, il passaggio irrazionale in cui ci si illude di poterne fare a meno. Una ricerca goffa ma profondamente umana di comprensione”. Il singolo viene accompagnato da un videoclip e presenta versi che intrecciano fragilità e intimità: “Quando/ Parli/ E quando ridi e piangi/ E tiri i calci e spingi/ Cercando di guarirmi/ Quando tu mi stringi/ Sei in grado di ferirmi/ Ed io non so spiegarlo/ E tu non puoi capirmi”.

Un’ombra luminosa

La pubblicazione di Una lunghissima ombra (2025), tuttavia, è iniziata qualche giorno prima. Per l’esattezza, il primo giorno del 2025, anno in cui da subito è stato difficile anche solo darsi tregua, o non chiedersi “dove ho sbagliato?” o dove avesse sbagliato il mondo insieme a noi, nessuno escluso. Usciva “Un momento migliore”, il primo dell’album, un modo di “pensare al Mondo” – sono le parole dell’autore – come se fosse una persona in carne e ossa, piena di difetti e vittima dei propri errori. Una persona come me e sicuramente come la maggior parte di noi”. Il momento migliore non c’è stato, né, in fondo, lo si doveva attendere. Perché tutto succede sempre adesso: il buio, la luce, ogni sua “Diffrazione” e “Rifrazione”, il calore lontano del sole, il gelo del “Neon” che svuota le stanze, la paura, l’amore e le speranze dei più romantici. Tutto adesso, tutto, appunto, per sempre, o per L’immensità, che Andrea già aveva contemplato nel 2019 e che ritorna ora come portato esistenziale: “Non voglio pensare al futuro/ perché sono quasi sicuro/ che sbaglierò per sempre/ Ma nessuno/ nessuno/ nessuno/ nessuno/ ha mai avuto un momento migliore / nessuno”. Più che un augurio, una consolazione o piuttosto uno scatto di consapevolezza affettuosa, perfino civile nel ricomprendersi in quell’unico nessuno che è il “noi” da cantare per esorcizzare le ombre.
“…Più nessuno è incolpevole”, scriveva Montale, nel 1938, nella “Primavera hitleriana”, “Colpevole” intitola oggi De Simone un pezzo sul quale, di ascolto in ascolto, il cuore finisce spesso per fermarsi. “È il senso di colpa più o meno latente che ci accompagna – dice ancora l’autore – È l’immagine che ho del presente… ed è un’immagine piuttosto severa”.
Poi il tempo ricomincia a correre, è già domani, “Quando” è tempo di andare oltre sé stessi e sentirsi ancora vivi, di “scoprire di non aver capito niente dell’esistenza se non il fatto che probabilmente c’è meno da capire di quanto ci sia da accettare”.
La “lunghissima ombra” è in ognuno di noi, è nelle cose, nei fatti, nel profilo scuro che i nostri corpi producono, se investiti dall’unica luce affidabile, o in definitiva possibile, quella che “Non è reale”. In questa reciprocità di chiarore e buio, eternità e tempo, dolore e desiderio, paternità e angoscia sul futuro, goffaggine e volo, riserbo e solidarietà, Andrea ha sostato a lungo, come a liberarsi dalle residue scorie intellettuali e ricongiungersi a un tutto più ampio e dunque comprensivo, che la mente non coglie, ma la musica, la poesia e l’immagine aiutano a intuire quale bagliore epifanico.
L’altro antefatto del disco è la passione dell’autore per il cinema e la fotografia come mezzo di espressione. A maggio è stato pubblicato un video di 67 minuti, interamente girato da Andrea, in cui dei quadri filmati si dipanano lungo un filo di immedesimazione simbolica e introspettiva, accompagnati dal loro audio ambientale. Sullo schermo appaiono anche frammenti di testo, scelti, oggi lo sappiamo, dalle liriche del disco. “Una lunghissima ombra” è “un progetto audiovisivo – dice ancora l’autore – in cui ho provato a portare alla luce i pensieri intrusivi, quelli che sono costantemente presenti dentro di noi anche quando stiamo pensando ad altro e che finiscono per proiettare lunghe ombre sulla nostra esistenza. Per farlo mi sono avvalso di una metafora semplice, quella del processo di formazione delle ombre. Ho scelto di rappresentare un ‘punto di luce’ attraverso delle inquadrature fisse della realtà, un ‘oggetto’ attraverso i testi delle canzoni e ‘le ombre’ attraverso la musica. Perché l’ho fatto? Per via delle mie ombre, temo”. Anche per le nostre. Una lunghissima ombra è un disco fraterno e universale. Un abbraccio.
Ora che, con la pubblicazione dell’album, il progetto è completo, se ne possono cogliere la profondità e l’ampiezza, dove la condizione di innamoramento meticoloso e artigianale per la musica e le sue immagini che da sempre fa la poesia di Laszlo De Simone si misura con il vasto orizzonte della domanda esistenziale. Ne nascono canzoni bellissime, la cui intensità dolorosa coincide con la loro luminosa leggerezza.
Il discorso musicale muove da L’immensità, il giustamente celebrato disco precedente, e ne arricchisce di nuove nuance la tavolozza, aggiungendo ad esempio qualche tocco di elettronica (“Quello che ero una volta”) o di ritmica in più (“Non è reale”). Si possono ritrovare le reminiscenze inconsce di Battisti, Le Orme, Battiato, Modugno cui l’autore ci ha abituati, così come l’influenza del lavoro fatto per la colonna sonora del film di Thomas Cailley Le Règne animal (2023).
Ma soprattutto a trovare conferma sono la coerenza, l’ispirazione, l’urgenza espressiva di uno degli artisti più originali e potenti della nostra attuale canzone d’autore. Un uomo capace di misurarsi con la complessità del tempo, immergendosi nell’ombra lunghissima che è insieme esito e presupposto di luce.

Contributi di Federico Piccioni (“Uomo, Donna”)




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