quando la crisi della moda diventa un atto di ribellione generazionale – Forlì24ore.it

A soli 20 anni, la cesenate Rebecca Mastini fonda Quattordicidiciotto e trasforma la crisi della moda in un laboratorio di linguaggi nuovi. Lontana dalle imposizioni del mercato, rivendica il diritto all’errore e alla disobbedienza creativa. La sua è una storia-simbolo di una Generazione Z precaria, sì, ma capace di reinventare il lavoro a partire dalle proprie passioni
La crisi della moda, per molti, è la fine di un’epoca; per chi la osserva da una prospettiva giovane, può diventare invece un varco inatteso. Rebecca Mastini, 20 anni, lo ha attraversato fondando Quattordicidiciotto, un progetto che è insieme brand, manifesto estetico e dichiarazione di guerra all’omologazione.
Nell’immaginario comune, la Generazione Z viene liquidata come un insieme di ragazzi pigri perché agiati, adagiati sulla comodità di avere tutto a portata di tap: Internet, smartphone, social media, consegne in un giorno. Un mondo dove il desiderio sembra coincidere con la velocità con cui si può acquistare. Eppure, dentro lo stesso universo digitale che spesso viene accusato di generare superficialità, c’è chi ha trovato la propria corsia di sorpasso. Gli strumenti “distrattivi” si trasformano in cassetta degli attrezzi: piattaforme, community e algoritmi diventano terreno su cui costruire progetti, lavori, identità.
È qui che si colloca la storia di Rebecca. Nata e cresciuta a Cesena, dopo il diploma al Liceo Classico “Vincenzo Monti” sceglie la via più naturale per chi ama la moda: si iscrive alla Scuola di Moda di Cesena. Ma ben presto intuisce che quel percorso rischia di allontanarla, anziché avvicinarla, all’idea di creatività radicale che ha in mente.
«Il mio percorso accademico si è interrotto a causa e grazie all’incontro con Simone Cracker — stilista di abbigliamento upcycled e presenza fissa alla Milano Fashion Week dal 2019 — che mi ha aperto gli occhi sulla prospettiva di lavoro negli uffici stile: una strada che avrebbe inevitabilmente precluso l’autenticità del mio processo creativo», racconta. Non rifiuta la formazione in sé, ma un certo modello di formazione pensata per incanalare i talenti nelle esigenze, spesso rigide, dell’industria.
Quella presa di coscienza diventa una frattura, ma anche un punto di partenza. Rebecca sente urgente la necessità di tracciare un solco personale, disallineato rispetto al percorso “giusto” che ci si aspetterebbe da una giovane stilista. Passo dopo passo, tra tentativi, bozze e notti di lavoro, arriva a settembre alla fondazione di Quattordicidiciotto.
«Ero alla ricerca di uno spazio in cui esprimere la mia identità di linguaggio — spiega — andando oltre le giustificazioni verbali e opponendomi alla triste omologazione delle idee che caratterizza il pensiero di oggi». Non un semplice marchio, quindi, ma un contenitore di visioni in cui i capi sono solo la parte visibile di un discorso più profondo.
Quattordicidiciotto nasce come critica ferma al mondo contemporaneo e, in particolare, alla moda di oggi, che Rebecca percepisce come bloccata in un eterno ritorno del già visto. La definisce «ripetitiva nella sua incapacità di individuare uno sbocco all’innovazione, ossessivamente incatenata a comodi modelli del passato». Collezioni fotocopia, trend che si inseguono in loop, capsule costruite per durare mezza stagione: in questo panorama, l’idea stessa di rischio sembra bandita.
La risposta di Rebecca è opposta: usare proprio l’errore come detonatore. Crea contraddicendo gli archetipi consolidati, cercando ciò che “non funziona” secondo i canoni tradizionali e trasformandolo in firma estetica. «Tutto ciò che stona ai miei occhi diventa punto di partenza — dice — qualcosa da lavorare fino a farlo diventare punto di forza». Asimmetrie, abbinamenti inattesi, scarti: ciò che altrove verrebbe scartato, in Quattordicidiciotto viene messo al centro.
È una presa di posizione che va oltre la moda e tocca il modo di stare al mondo di una generazione intera. Sempre più “nativi digitali” si inventano imprenditori nel business delle passioni, non perché sia facile, ma perché il lavoro tradizionale appare spesso inospitale o incapace di accogliere sensibilità nuove. In questo senso, la storia di Rebecca non è un’eccezione isolata, ma il sintomo di un cambiamento: la creatività non è più soltanto un hobby, ma una possibile infrastruttura di vita.
«Non ambisco a piacere al mercato, ma a lasciare una traccia netta, senza compromessi», afferma con lucidità. È una frase che suona quasi provocatoria in un sistema in cui le collezioni nascono e muoiono inseguendo dati, insight e previsioni di vendita. Per lei la priorità è un’altra: preservare la verità del proprio linguaggio. Il resto, se arriverà, sarà “soltanto” conseguenza.
Le entrate, infatti, non rappresentano il centro del progetto: «Sono una fisiologica conseguenza», sottolinea. Prima viene il trasporto emotivo, poi il lavoro in senso stretto. Non è ingenuità, ma un rovesciamento di prospettiva: la sostenibilità economica non è rinnegata, ma non diventa il criterio che decide cosa è degno di esistere.
In un momento storico in cui si parla di crisi della moda, saturazione del mercato e fine dell’originalità, Quattordicidiciotto si inserisce come piccola ma incisiva crepa nel sistema: un promemoria del fatto che l’innovazione non nasce dai grandi budget, ma dalla capacità di guardare il mondo in modo obliquo. E che, a volte, per trovare una via d’uscita, bisogna avere il coraggio di trasformare ciò che stona nel proprio segno distintivo.
Source link




