Marche

«Lo doveva cacciare ma l’ha perdonato. Sperava potesse cambiare»


MONTE ROBERTO «Non posso crederci, non posso crederci, alla fine è successo». Michaela si avvicina al nastro rosso dei carabinieri, davanti alla palazzina di via Garibaldi dove ieri è stata trovata senza vita Sadjide Muslija, 49 anni, massacrata a colpi di un oggetto contundente. Il marito, Nazif Muslija, 50 anni, è irreperibile da ieri mattina ed è il principale sospettato: un passato di violenze, denunce e un arresto lo scorso aprile, quando aveva rincorso la moglie con un’ascia. «Gliel’ho detto tante volte che doveva mandarlo via, che l’avrebbe rifatto. Che avrebbe potuto ucciderla». Michaela non sembra avere dubbi sull’autore di quel massacro ed è un fiume in piena: parla, si sfoga e quando i ricordi riaffiorano, il dolore si mischia alle lacrime. 

Lei e Sadjide – per tutti Sara – erano molto amiche. Per un periodo erano state vicine di casa: caffè al volo, confidenze a mezza porta, quelle piccole complicità che tra donne diventano rifugio. «Era una persona buona, silenziosa. Lui invece era geloso, troppo – dice del marito della vittima, ora irreperibile -. Temeva che lei avesse un amante, ma lei faceva solo casa e lavoro. E quando beveva diventava aggressivo», racconta. Michaela l’aveva supplicata più volte di mandarlo via, ma quella casa l’avevano comprata insieme e per Sadjide non era semplice cacciare il marito da un luogo che sentiva anche suo.

E poi c’era quel percorso terapeutico che l’uomo avrebbe dovuto seguire dopo le violenze: un appiglio di speranza a cui lei si era davvero aggrappata. «Credeva che sarebbe cambiato – confida – per questo aveva annullato la separazione. L’alternativa era raggiungere il figlio in Svizzera, ma lei non voleva lasciare il lavoro qui». I vicini ricordano bene i lampeggianti dei carabinieri, visti più volte. Non conoscevano però la profondità del dramma finché, ad aprile, l’escalation non era esplosa: lui che la rincorre con un’ascia, lei che fugge e bussa alla casa accanto.

Il ricordo

Il vicino che l’ha salvata quel giorno, e che chiede di rimanere anonimo, ricorda ogni dettaglio. «Ha suonato il campanello. Ho aperto e l’ho vista correre verso di me, terrorizzata. Ho agito d’istinto e l’ho fatta entrare». Le aveva offerto qualcosa di caldo, giusto il tempo di farla respirare, poi aveva chiamato i carabinieri. «Mi ha raccontato che da dicembre lui aveva iniziato a dare segni di aggressività. Quel giorno è stata fortunata: è riuscita a trovare riparo prima che lui la raggiungesse». Nei mesi successivi gli era capitato di incontrarla ancora. «Le dissi di stare attenta, che poteva rifarlo. Lei mi fece un sorriso dolce». Per rassicurare, o per proteggersi. Nessuno può conoscere fino in fondo il dramma che stesse vivendo, la violenza psicologica a cui era sottoposta ogni giorni. Un pensiero che ora scuote l’intero paese.




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