Intervista a Laura Perrotta per la mostra “Ritratti INperfetti”
03.12.2025 – 18.00 – Avete mai pensato cosa rimane delle nostre idee, di quei ragionamenti che emergono quando siamo da soli con i nostri pensieri? Intendo dire, cosa rimane materialmente dell’astrattezza che, per antonomasia, sono le idee? Per creare un supporto tangibile che sconfigga il tempo e le frane della memoria qualcuno scrive libri, altri registrano podcast, qualcuno scatta fotografie e istituisce mostre. Prendiamo in considerazione l’ultimo caso. La bellezza della fotografia si trova nel suo impatto comunicativo: un’immagine parla senza il peso delle parole. Questo non è da confondere con la leggerezza, perché i messaggi che si trovano tra le fotografie sono innumerevoli, vari e impattanti. Nel caso della nuova mostra qui a Trieste, “Ritratti INperfetti”, l’invito è quello di riflettere sulla perfezione irraggiungibile che la società ci vuole imporre, e su quanto la nostra identità sia in movimento, mai intrappolata in rigidi schemi (e scatti).
Intervista a Laura Perrotta sulla mostra “Ritratti INperfetti”
Laura Perrotta, 19 anni, ha frequentato l’istituto tecnico Grazia Deledda – Max Fabiani di Trieste, indirizzo grafica e comunicazione. Dopo essersi diplomata nel 2025 ha deciso di trasferirsi a Verona per studiare “Digital e graphic design”, corso della IUSVE che le permette di unire due grandi passioni, la grafica e la comunicazione. “Tratta la simbologia
della memoria e del ricordo: so che quel momento è passato, però riguardando una foto
posso conservare dentro il calore”: Laura ha definito così la fotografia, mentre raccontava la sua prima mostra personale, “Ritratti INperfetti”, in sala Fittke (piazza Piccola, Trieste) dal 6 al 20 dicembre 2025.
Come e quando nasce la mostra?
Tutto parte questa primavera/estate, quando durante il mio tirocinio di grafica nell’azienda
“mediaimmagine” mi viene fatto conoscere Calogero Chinnici, il fotografo a capo
dell’associazione centoFoto APS. Calogero ha visto la mia passione e mi ha subito coinvolta, mi ha prestato una macchina analogica e siamo andati in camera oscura: questa cosa mi ha appassionata molto. Non ho mai potuto proseguire con corsi esterni di fotografia, ma ho
comunque partecipato agli eventi dell’associazione centoFoto APS. Da questi incontri mi ha detto che ha rivisto in me sé stesso da giovane: mi ha preso sotto la sua ala ed è stato un grande insegnante, soprattutto sul campo. Un giorno mi ha detto che aveva in mente questo progetto da anni, solo che non era mai riuscito a realizzarlo. Allora mi ha chiesto se volessi prendere io in mano l’idea. Abbiamo iniziato a fotografare diversi modelli già quest’estate e ho avuto la possibilità di imparare molte tecniche nuove: io infatti sono appassionata di fotografia, ma fino ad adesso ero autodidatta.
Le fotografie quindi si sono costruite su uno scambio di idee tra te e Calogero?
Sì, anche perché considero Calogero un grande mentore iniziale. L’idea nata da lui era
ancora molto astratta, infatti abbiamo cambiato molto, abbiamo parlato insieme e in fase di
processo ci siamo accorti che alcune cose era più impattanti rispetto ad altre. Tutta la mostra è basata sul concetto dell’imperfetto, quindi sull’unicità della singola foto e della tecnica. Adesso siamo abituati a vedere tutte le foto perfette e modificate in studio, ma in queste foto abbiamo ripreso vecchi stimoli come l’uso di alcuni filtri, la doppia e tripla esposizione, e l’uso di tempi molto lenti: sono cose che si stanno un po’ perdendo.
“Ritratti INperfetti”: qual è il filo conduttore tra le foto? Possiamo leggere già nel titolo una critica alla nostra società, che ci vuole sempre perfetti?
Il filo conduttore principale è il tentativo di un racconto tra me e Calogero. Veniamo da due
epoche totalmente diverse: abbiamo tanti anni di differenza, il suo modo di interpretare non solo la tecnica del ritratto, ma proprio la vita in generale, è molto diverso dal mio. Attraverso le foto siamo riusciti a parlare e capire i nostri punti di vista, ma soprattutto la prospettiva che abbiamo sul mondo. Nel titolo abbiamo messo la “n” al posto della “m” per sottolineare l’imperfezione, questo perché al giorno d’oggi la società ci abitua a standard che ciclicamente cambiano. Abbiamo voluto prendere delle persone “quotidiane” che sono
bellissime a modo loro: tutti hanno dei lineamenti bellissimi e delle imperfezioni che li
rendono unici. Se siamo soltanto delle copie non ha senso, invece in questo caso ogni
imperfezione è un valore aggiunto, quella cosa che ti spinge a dire “okay, quello sono io, io
sono me stesso”. Per questo motivo abbiamo deciso di non fare delle correzioni: la texture
della pelle, se è un po’ più rovinata ad esempio, è normale, è ciò che contraddistingue quella persona. Se tutto è perfetto si perde la realtà, non vai da nessuna parte, e sei solo una copia tra le tante.
Le persone che hai fotografato fanno parte della tua vita?
E’ un po’ un mix: alcune me le ha presentate Calogero, difatti io non le conoscevo. Sono i
soggetti adulti: con loro è stato un po’ complicato approcciarmi, anche per una questione di
rispetto. Poi non sono una professionista, quindi sentivo la responsabilità che avevo nel
trattare le persone come modelli a cui indicare delle pose. Altri invece sono conoscenti e
amici, a cui ho chiesto di essere i miei modelli. Ad alcuni ho chiesto la disponibilità di farsi
ritrarre per le loro caratteristiche: un mio amico con i capelli rasati si è dipinto i capelli, e lui con il suo stile è una persona unica nel suo genere, tanto che quando ho saputo della
mostra ho pensato subito a lui. Riconosco ogni volta la bellezza naturale delle ragazze che
ho portato io: una mia amica è colombiana e ha dei lineamenti molto particolari. L’unico
problema che ho avuto quando li ho fotografati è stato rimanere seria. Il resto è venuto
naturale: nelle persone che conosco bene riesco a vedere subito la loro anima.
Dunque sono foto che nascono dopo aver capito la persona dalla persona?
Sì. Ognuno di noi è diverso per fattori estetici, ma la cosa importante è la nostra anima. Per
chi conosco da tanto tempo è stato più semplice percepire “quella cosa là”, mentre per le
persone nuove è stato più difficile l’approccio. Nel processo delle foto ho comunque sentito
delle energie e delle sensazioni che mi comunicavano il genere di persona, e quindi cercavo
di ritrarla in quel determinato modo. Io poi sono abbastanza timida, e c’era Calogero che mi diceva di parlare ed interagire con il modello. Adesso ne capisco ancora di più l’importanza: bisogna mettere a proprio agio la persona e capirla, perché si ha un ruolo di responsabilità.
Più in generale, c’è qualcosa che vuoi comunicare con le tue fotografie?
A me è sempre piaciuta la ritrattistica per i dettagli che si trovano sulla persona, ma anche
un mondo più underground, street, lontano dalle convenzioni molto rigide. Allo stesso tempo mi piace molto la foto in studio e la possibilità di avere il controllo di tutto, dalle luci allo sfondo. Ma oltre a questo amo fermare i ricordi: scattare una foto è qualcosa che cattura un momento preciso. Alla fine si tratta della simbologia della memoria e del ricordo: quel momento è passato, però riguardando una foto posso conservare dentro il calore. Parlo anche dell’arte di “costruire la vita” sui momenti belli o brutti che sono parte di te: nella fotografia voglio rappresentare il percorso di vita verso una vera sensazione di serenità. Il fatto di essere un determinato tipo di persona si deve leggere negli occhi: questo voglio rappresentare con la mia fotografia.
Come sei riuscita ad applicare la tua formazione grafica in questa mostra?
La grafica mi ha aiutato molto a livello di composizione. Ogni tanto dico che vedo il mondo “a griglie”: il mondo della grafica è una conciliazione tra l’artista e il tecnico. Devi riuscire ad unire la creatività seguendo delle strutture: la chiave della grafica è saper comunicare alle persone. In questo caso gli inviti per la mostra li ho rielaborati sulla base della grafica: ho preso una foto, l’ho divisa a metà e l’ho modificata. Quindi sì, la grafica nella fotografia mi aiuta molto sia per poter esprimere determinate cose sia perché mi consente di elaborare un’immagine unica nel suo genere. Emerge un “collage” di tutte le mie passioni.
Hai detto che non c’è stato un grande lavoro di postproduzione. Tecnicamente le foto sono molto pensate: che tipo di lavoro c’è dietro?
E’ stato un bel lavoro e abbiamo fatto molte prove prima di raggiungere la foto finale. Prima bisogna vedere tutto il set, si devono gestire tutte le luci e bisogna regolarne, sulla base della carnagione della persona, l’intensità. Lavoravamo su tre luci, una di schiarita dietro, una principale e una che aiuta a schiarire i lati del volto. Capire la potenza di quelle tre luci e riuscire ad usarle con tutte le fasi tecniche della macchina fotografica, tra ISO, diaframma e tempi. Abbiamo cercato di evitare un lavoro in postproduzione, perché volevamo immortalare in un modo preciso un determinato momento. L’unico cambiamento fatto dopo è stato quello di trasformare le foto statiche in bianco e nero, per creare l’impatto in cui si blocca il tempo, rispetto alle foto che lasciano la scia, visti i lunghi tempi di esposizione.
Quindi l’insieme delle fotografie nella loro esposizione hanno un ordine di lettura?
Sì. Le foto non sono sistemate in base ai soggetti. Vogliamo creare un percorso in cui,
guardando la mostra, si trovano le stesse persone in un contesto diverso, e quindi con
un’emozione diversa. C’è un po’ il gioco con l’esposizione: tempi lunghi permettono di
lasciare una scia, mentre tempi brevi lasciano pezzi di sé. L’ordine di lettura quindi crea un
movimento che ritorna alla staticità: questo è da interpretare come se fosse un “percorso
proprio”. La nostra volontà è anche quella di lasciare che le persone si possano ritrovare in
qualche scatto: un’insicurezza può diventare più piccola se viene vista in una fotografia.
Così si può dire “ci sono anche io”.
C’è un artista a cui ti ispiri particolarmente?
Ne ho diversi. La mia personalità principale è nata da due mondi: lo street artist Banksy e il
regista Tim Burton. Sono due nuclei completamente diversi, ma entrambi mi hanno spinto a vedermi in modo diverso. Infatti mi sono detta: “magari sono strana, ma dallo strano cosa esce? Questo”. Con Banksy, di cui mi sono innamorata in prima media, per il suo modo di esprimersi e il fatto che voglia rimanere anonimo. Si vede l’impatto sociale: non vuole realizzare qualcosa per diventare famoso e inserirlo nei musei, ma vuole che tutti vivano e vedono le sue opere. Tim Burton e i suoi disegni dagli occhi molto grandi mi affascinano tantissimo: la bellezza nelle sue scelte è emozionante e non fa altro che ispirare. L’anticonformismo di questi due artisti dà “uno schiaffo morale” alla macchinosità della nostra società.
In tutto questo ti rimane anche una grande soddisfazione: essere così giovane ed avere una mostra personale.
Si infatti. Per me è tutto strano. Io faccio le cose perché le voglio fare: le foto ho iniziato a
farle per piacere, poi mi è stata proposta la realizzazione della mostra. Quando abbiamo
incominciato a parlare seriamente di questo progetto ho avuto anche un po’ paura. Io vorrei comunque raggiungere obiettivi molto alti e lasciare il segno, ma allo stesso tempo essere così giovane ti mette addosso molte preoccupazioni. E se non sono abbastanza? Se
qualcuno vede la mostra e la giudica banale? In ogni caso l’emozione e l’adrenalina che si
creano superano ogni insicurezza. Anche se sarò imbarazzata o “farò una figura” so che
ripenserò a questo momento con grandissima soddisfazione. In questo senso Calogero ha
avuto un ruolo importante: non solo mi ha insegnato molto, ma in quanto giovane mi ha dato fiducia e responsabilità.




