Lo Chaberton visto con gli occhi di un pugliese

Carica di patos è una descrizione di Francesco Virgilio, pugliese, dimorante sull’Adriatico, neo alpinista, che riporta le impressioni provate nella sua visita del 1873 alla “stupenda catena di monti che è limite, difesa e vanto della nostra penisola”.
Dopo essersi cimentato in qualche uscita in Val d’Ala e sulle rupi del Rocciamelone, nei primi giorni di settembre Francesco Virgilio è seduto su un treno che lo sta portando a Oulx insieme ad alcuni compagni: “Io andavo più per ammirare e fare ginnastica, il professor Baretti per esplorazioni geologiche, ed il pittore Bossoli per disegnare il panorama del selvaggio e stupendo gruppo delle Alpi delfinesi, che all’ovest si estendono tra la Durance e l’Isère”.
Ecco dunque, attraverso le parole di uno dei protagonisti del suo tempo, quali sono alcune delle motivazioni che spingono molti giovani alla scoperta della regione alpina, nel cuore dell’Europa: esercizio fisico, ricerca scientifica e raffigurazione.
Il 3 settembre 1973 sono alla stazione di Oulx, nell’alta val Susa. Con l’assistenza della guida Francesco Gay, “buon cacciatore e buona compagnia”, raggiungono Cesana, per poi dirigersi verso Clavière e il Monginevro.
La salita
Sveglia alle 4,30 del 4 settembre: “Il tempo era magnifico, l’aria vivida e fresca, noi pieni di coraggio e di energia, le rupi scoscese dello Chaberton pareva ci sorvegliassero con aspetto arcigno ed ostile; la nostra guida Francesco si caricò di una rispettabile cesta piena di viveri, e noi partimmo dirigendoci a nord per il vallone detto delle Baisses, onde girare la base dello Chaberton e dargli l’assalto dalla cresca che scende in direzione nord”.
La salita suscita in Virgilio stati d’animo quasi opposti.
Dapprima è spettatore per la prima volta di un magico incontro: “Salendo potei ammirare uno spettacolo nuovo per me, cioè un branco di 15 a 20 camosci, che con agilità incredibile s’arrampicavano per le rupi dello Chaberton, e, valicandone infine la cresta nord, scomparvero dai nostri occhi”.
Poi, passato questo momento, le fatiche dell’ascesa rischiano di prendere il sopravvento: “Non mi ricordo mai di aver dovuto eseguire un così faticoso esercizio muscolare. Si affondava sino a mezza gamba in minuti detriti di calcare, i quali, scivolando sotto il piede, facevano sì che per ogni metro di avanzamento si doveva retrocedere forzatamente di un mezzo metro. Ciò che più stancava, e dirò sinceramente demoralizzava, era quell’enorme sforzo muscolare, che andava in gran parte perduto, e quel continuo disequilibrio, in cui il corpo ad ogni passo si trovava. Per certo, che se fossi stato solo, molte volte avrei abbandonato l’idea di raggiungere la vetta, ma il professore Baretti continuamente mi sollecitava a far coraggio, a superare lo spossamento fisico che minacciava di diventar morale, mi concedeva ogni tanto qualche minuto di riposo, coll’assoluta proibizione di sedermi. Finalmente dopo circa tre quarti d’ora di questa demoralizzante fatica, il professore Baretti prende la corsa, e con un sonoro urrà ci dà l’avviso consolantissimo di essere giunti al sommo”.
In cima
Sulla cima gli alpinisti trovano una piramide di massi, che forma il segnale trigonometrico, utilizzato nei decenni precedenti per la stesura di una cartografia più precisa. Vicino, vedono i resti di una o più croci in legno e di qualche cumulo di neve da dove ricavano un po’ d’acqua da bere. Le otto torri in muratura, con tutte le installazioni militari, non sono ancora state costruite, ma inizieranno a caratterizzare il paesaggio dagli ultimi anni del XIX secolo.
Dopo aver individuato le cime che costituiscono l’orizzonte, il Bossoli si mette al lavoro e disegna il panorama circostante, mentre il professore Baretti predispone la sua attrezzatura per eseguire dei rilievi barometrici.
Più tardi, viene alleggerita la cesta “di certi polli arrostiti, i quali sicuramente non erano mai stati sullo Chaberton”. Raccolte le loro cose, gli alpinisti ridiscendo al colle, da qui si dirigono verso Fenils. Verso l’ora di cena raggiungono Oulx, da dove un treno li riporta verso casa.
Possiamo dunque immaginarceli, cullati dal movimento e dai suoni della locomotiva, abbandonati in un dolce sonno in cui camosci, panorami e polli arrosti contribuiscono a far comparire un leggero sorriso sui loro volti dormienti.
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