faccio fatica a capire chi vuole ignorare tutto questo
Quando si parla di violenza di genere, spunta sempre fuori la carta dell’educazione sessuo-affettiva nelle scuole, dando il via a polemiche ormai cicliche: sì? No? Chi? Come? Quando?
E mentre ci chiediamo se sia legittimo parlare con i minorenni di relazioni, sentimenti e rapporti – ovviamente in chiave diversa e con strumenti e linguaggi eterogenei tra scuola primaria e secondaria – loro si arrangiano come possono, navigando in solitaria uno sconfinato mare di informazioni e profili social che suggeriscono tutto e il contrario di tutto. So già che molti diranno: “Ai nostri tempi non esisteva l’educazione sessuale, eppure abbiamo costruito relazioni e famiglie!”. Beh, si può dire che la realtà prima degli anni 2000 fosse un mondo a parte rispetto a quella attuale; se è vero che permane un concetto comune di desiderio e di attrazione, è altrettanto vero che le relazioni, oggi, sono più complesse, intrecciate alla gestione non solo di sé, ma della propria immagine social, dell’accesso a informazioni, consigli, video e tutorial in rete, nonché di possibili contatti con forme di abusi e violenze sempre più subdole e meschine. Penso alla diffusione di materiale intimo senza consenso, alle dick pics, allo stalking digitale e alla manipolazione che ormai avviene tipicamente tra le chat di messaggistica istantanea.
Faccio davvero fatica a comprendere il desiderio di molti genitori di ignorare tutti questi pericoli e di lasciare al coraggio dei propri figli un’eventuale richiesta di aiuto. Sembra ci sia una tendenza a ritrarsi quando si parla della sfera sessuale e desiderante dei minori, eppure è una fetta enorme della loro esistenza, soprattutto nella fase adolescenziale: la crush, le “seghe”, le troie (quelle delle canzoni trap), la depilazione, le foto hot da mandare in chat, l’essere gay o lesbiche, l’abitare un corpo non conforme agli standard, la gelosia che sembra renderti folle… e se ne parlano, va ancora bene, siamo fortunati. Tanti di loro, però, non riescono a portare fuori di sé tutte le domande e vi restano aggrovigliati, chiedono aiuto a ChatGpt. “Ehi chat, cosa mi consigli di fare se…?”; tanti studenti mi confessano di usare l’intelligenza artificiale per chiacchierare di problemi personali, un interlocutore che non giudica e non fa vergognare per eventuali errori o mancanze.
Quasi un adolescente su due usa l’Ai per avere conforto e consigli: dovrebbe suonare un campanello d’allarme! Ci stiamo rifiutando di instaurare un dialogo su temi di cui sì, gli adolescenti hanno vergogna; gliela stiamo trasmettendo anche noi, moltiplicandola, e loro risolvono nel modo più semplice: eliminando il fattore umano. E se da una parte l’intelligenza artificiale può essere utile per gli aspetti pratici (es. sa spiegarti passo passo come indossare un preservativo), contemporaneamente svuota di significato il concetto stesso di educazione, intesa non come mera trasmissione di informazioni, ma come scambio reciproco di conoscenze ed esperienze, creazione di strumenti e nuove consapevolezze.
Uno degli aspetti più faticosi da fronteggiare, ma anche tra i più efficaci, è la diversa percezione che ragazzi e ragazze hanno della vita nei panni dell’altro genere. Spesso i maschi adolescenti credono che per le ragazze la quotidianità delle relazioni sia più semplice (le persone tendono a trattarle con più gentilezza, non devono mai fare il primo passo e altri retaggi di una cultura che le dipinge come passive rispetto al contesto) e le ragazze sono convinte che per i maschi tutto fili più liscio (scarsa emotività, più talento nel mascherare gli stati d’animo, meno paura nelle situazioni pericolose e altre convinzioni basate non necessariamente su quello che i loro compagni di classe sono, ma su come ci si aspetta che siano).
Nel mio ultimo libro dedicato agli adolescenti (Le cose come stanno, People) è presente un inserto dal titolo “perché il patriarcato danneggia anche gli uomini?”. È una parola spaventosa “patriarcato”, i più giovani non si sentono parte di questo problema e non gli sembra neanche una realtà così concreta, quanto piuttosto un fatto storico, un contesto superato. La fatica, dunque, diventa riconoscere le tracce di quel sistema nei nostri comportamenti quotidiani; e dico “nostri” non a caso: anche le donne possono essere maschiliste! (Lo fa emergere chiaramente Karen Ricci, fondatrice della community @caraseimaschilista). Così, gli adolescenti devono imparare a gestire i primi approcci con maggior cura e rispetto, a comunicare i propri limiti, a saper dire o ricevere un “no” facendo i conti con le sue conseguenze.
Non è raro che a scuola si parli di notizie di attualità e se si sceglie di affrontare il tema della violenza di genere i fatti di cronaca non finiscono mai, ce ne sono mille per qualsiasi sfaccettatura: dalle molestie alle discriminazioni sul lavoro, dai femminicidi agli stupri di gruppo passando per la transfobia. Studenti e studentesse difficilmente si tirano indietro quando entrano in gioco queste tematiche, anche il più restìo ha qualcosa da dire, foss’anche accusare le ragazze di farsi offrire un cocktail per poi sparire. Riuscire a dialogare da un punto di partenza come questo non è mai facile, però la vera sfida è già superata: attirare la loro attenzione. L’interesse si accende perché sono coinvolti, perché molti di questi problemi “scottano” sulla loro pelle, sia come vittime che come carnefici che si sentono chiamati in causa. E quando la discussione si apre, il tempo non è mai abbastanza, mai.
Ricordo le mie classi a seguito del femminicidio di Giulia Cecchettin: dopo averne parlato insieme, decidemmo di fare un minuto di rumore, anziché un minuto di silenzio. Eravamo commossi, arrabbiati e anche chi tra loro non avrebbe saputo fare un discorso sulla violenza sistemica o sull’importanza della prevenzione, percepiva il problema in modo lampante: ci sono persone che non sanno gestire il rifiuto. Filippo Turetta non è stato il primo, né l’ultimo; non crogioliamoci nell’illusione consolatoria che domani non possa essere nostro figlio, un nipote, uno studente. Facciamo l’operazione al contrario: non chiediamoci più “e se fosse mia/tua figlia ad aver subito ciò?” quando parliamo di violenza di genere; chiediamoci invece “e se fosse mio/tuo figlio ad aver commesso un abuso?”.
Per quanto io creda profondamente nel valore dell’educazione affettiva e sessuale sin dai primi anni di scuola, non bisogna farsi ingannare: non si tratta della formula magica che risolve il problema della violenza maschile contro le donne. Immaginando che tra qualche anno possa entrare nei curricoli delle scuole (utopia, ahimè), prima che si vedano gli effetti a lungo termine sulla società dovrebbe passare almeno qualche decennio. E intanto? Non possiamo confidare nella scuola come unica ancora di salvezza. Noi adulti in primis dobbiamo riconoscere l’esigenza di cambiare rotta: l’educazione alle relazioni va portata nelle aziende, negli enti pubblici, tra i docenti, nei luoghi dello sport e nei presidi della cultura. La pedagogia dell’esempio, da Plutarco a oggi, ci affida grandi responsabilità: la testimonianza e l’imitazione sono strumenti insostituibili nello sviluppo delle capacità utili alla crescita e all’apprendimento, comprese quelle relazionali.
Chiediamoci, a questo punto: stiamo facendo abbastanza? Checché ne dica la ministra Roccella (la quale non ha chiaro che più denunce per violenza non corrispondono in modo diretto a più violenza, ma a una maggiore capacità di riconoscerla e denunciarla), la risposta è no.
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